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    Titolo del film: THE HURT LOCKER (The Hurt Locker)

Regia: Kathryn Bigelow

Soggetto e Sceneggiatura: Mark Boal

Fotografia: Barry Ackroyd

Musica: Marco Beltrami, Buck Sanders

Interpreti: Jeremy Renner (Sergente William James), Anthony Mackie (Sergente JT Sanborn), Brian Geraghty (Owen Eldridge), Guy Pearce (Sergente Matt Thompson), Ralph Fiennes (Caposquadra mercenari), David Morse (Colonnello Reed), Evangeline Lilly (Connie James), Christian Camargo (Colonnello John Cambridge), Suhail Al-Dabbach (Black Suit Man), Christopher Sayegh (Beckham), Nabil Koni (Professor Nabil), Sam Spruell (Charlie), Sam Redford (Jimmy), Feisal Sadoun (Feisal), Barrie Rice (Chris), Justin Campbell (Sergente Carter), Malcolm Barrett (Sergente Foster)

Genere, durata e nazionalità: Azione/Thriller, 127', Usa

   
         
   

   La paura si è fatta una cattiva fama ma io non credo che sia meritata. La paura è chiarificatrice. Ti obbliga a mettere davanti le cose importanti e tralasciare quelle insignificanti.

   Quando Mark Boal è tornato da una missione come reporter in Iraq, mi ha raccontato dei soldati che disarmano le bombe in piena guerra, ovviamente un lavoro da unità speciale con elevatissimo tasso di mortalità.

   Quando mi ha detto che erano persone estremamente vulnerabili e che per disarmare una bomba che uccide con un raggio fino a 300 metri utilizzano solo un paio di pinze, sono rimasta scioccata.

   Quando poi ho appreso che sono volontari e che spesso questo lavoro li prende talmente tanto da non potersi immaginare a fare qualcosa di diverso, ho scoperto che quello era il mio nuovo film. (Kathryn Bigelow)

(nella foto Kathryn Bigelow e Matk Boal)

   
         
    Trama

   Se la guerra è l’inferno, perché sono in tanti a scegliere di combattere? In un’epoca in cui gli eserciti nonsono formati da militari di leva ma da volontari, e gli uomini si lanciano di buon grado nell’azione militare, a volte la guerra corteggia in maniera potente e seducente fin quasi a diventare dipendenza.

   THE HURT LOCKER è il ritratto intenso di un’unità speciale di soldati con il compito più pericoloso del mondo: disarmare bombe nel mezzo dell’azione. Quando il nuovo sergente, James (Jeremy Renner), assume il comando dell’unità speciale esperta in disarmo delle bombe nel bel mezzo di un violento conflitto, sorprende i due sottoposti, Sanborn ed Eldridge (Anthony Mackie e Brian Geraghty), lanciandosi inesorabilmente in un gioco mortale di guerriglia urbana. James sembra essere indifferente alla morte.
Mentre i soldati lottano per controllare la follia del loro nuovo capo, in città esplode il caos, e salta fuori il vero carattere di James, cambiando ogni uomo per sempre.

Con la visionaria regia di Kathryn Bigelow, THE HURT LOCKER è il frutto dell’osservazione diretta del reporter e sceneggiatore Mark Boal. Con Jeremy Renner (Dahmer, il Cannibale di Milwaukee, L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford), Anthony Mackie (Half Nelson, We Are Marshall) e Brian Geraghty (We Are Marshall, Jarhead), il film associa l’avvincente azione realistica al dramma umano più intimo per mostrare la psicologia di un soldato durante azioni ad altissimo rischio, fra uomini che scelgono di affrontare mortali avversità.

   
         
    Rassegna Stampa    
         
       Roberta Ronconi - Da Liberazione, 10 ottobre 2008

   Com'è bella la guerra anche se fa male

   Raffinata, sensuale, tesa, potente. Kathryn Bigelow sa come affascinare lo sguardo senza condurlo troppo lontano. Con The Hurt Locker - storia di un commando di disinnescatori di bombe - riporta Hollywood sul luogo del delitto, ovvero la guerra in Iraq. Una ricognizione formale, più che sostanziale, la regista di Strange Days torna dove già erano stati, tra gli ultimi, De Palma e Haggis, per andare a recuperare qualcosa che, a suo avviso, era stato dimenticato: il senso della guerra come droga dell'anima, le mani nude a contatto con la morte, senza guanti tra i fili delle bombe, il rosso o il blu, forse salto in aria forse vivo fino a domani. Il risultato è maschio, virile, cameratesco. Come ai bei tempi dei western di John Ford, pieni di fondine e di polvere nelle unghie. Sorprende quindi che, al Festival di Venezia, Bigelow si sia sperticata per Obama e per un diverso futuro per l'America. Sarà anche una democratica nelle parole, ma nelle immagini è più reazionaria di molti suoi colleghi. Nelle sue mani, la guerra in Iraq fa un balzo indietro, torna ad essere canto del milite ignoto, colui che tra il sangue e il fragore perde il senso della realtà per ritrovarla, poi, solo tra le braccia di un bambino. Non è solo una questione ideologica, è proprio nella forma del cinema di Bigelow che si respira l'epica reazionaria più saldamente americana, quell'attaccamento ai valori primari del maschile che fanno del suo film un'ode al coraggio piuttosto che una condanna alla follia.
Sul tema della guerra, il film non aggiunge assolutamente nulla a ciò che abbiamo visto, anzi, come dicevamo, ci riporta indietro. E pochissimo si sente la scrittura del reporter di guerra Mark Boal, già collaboratore di Paul Haggis per Nella Valle di Elah come per il precedente Crash . Bigelow dichiara il suo diritto ad essere neutrale nell'osservazione del conflitto, ma la neutralità di fronte alla guerra non esiste. In battaglia, funziona la regola del silenzio-assenso. E in "Hurt Locker" la cosa risulta inopportunamente evidente.

   
         
       Fabio Ferzetti - Da Il Messaggero, 10 ottobre 2008

   L'uomo che sussurrava alle bombe

   Quando la bomba comincia a emergere dal terriccio il sergente maggiore James emette una specie di mugolio di piacere. Le dita scavano esperte e quasi avide, scostano il pietrisco, accarezzano il metallo, dipanano i cavi fino a snidare il detonatore, che in pochi secondi finisce a terra. Missione impossibile. Missione compiuta.
Il sergente maggiore James, artificiere in Iraq, fa uno dei lavori più pericolosi del mondo e dei più eccitanti. A casa era solo un redneck, un bifolco, una testa calda. "Spazzatura", come sentenzia il suo secondo, stufo di subire le sue pericolose mattane. Ma lì al fronte è il dio del coraggio. Uno che ha disinnescato più di 800 bombe da quando è in servizio, e colleziona strani pezzetti di plastica e metallo. "Roba che stava per ammazzarmi", dice sarcastico ai compagni, con ogni evidenza più ansiosi di lui di portare a casa la pelle.
«La furia della battaglia provoca una dipendenza fortissima e spesso letale, perché la guerra è una droga», ammonisce una citazione in apertura. E il film fa di tutto per ricreare quella paradossale ebbrezza da adrenalina, con la maestria che ci si può aspettare dalla regista di Point Break e Strange Days che mixa con efficacissima furia tempi morti e accelerazioni fulminee, riprese studiatissime da cinema di guerra e altre convulse in stile reportage.
Intanto però la guerra va avanti. Militari e civili muoiono come mosche. Ogni casa, ogni bancarella, ogni auto che passa può nascondere un nemico o il fantasma di un nemico, anche più pericoloso quando non sei sicuro di nulla. E perfino un povero ragazzino, ormai cadavere, può essere imbottito di plastico e diventare un "corpo bomba" (scena insostenibile che per la prima volta fa vacillare il sergente sordo alla morte, trascinandolo in un crescendo di temerarietà e di errori). Ma cosa vuole raccontare esattamente Kathryn Bigelow con questo film incalzante ed ellittico, adrenalinico e sapientemente ambiguo, ispirato ai reportage sul campo del giornalista sceneggiatore Mark Boal (già coautore di Nella valle di Elah di Paul Haggis) e diviso in blocchi indipendenti come "stazioni" di un unico percorso?
In superficie l'itinerario del sergente James segue il classico schema della presa di coscienza. Dall'invulnerabilità iniziale dalla sua illusione alla cognizione del dolore. Nessuna denuncia increspa il racconto. Per la Bigelow la guerra è un fatto, l'Iraq non è diverso da altri conflitti, quello di The Hurt Locker è un trip anzitutto interiore come si capisce nell'epilogo, quando il sergente incontra la propria natura profonda.
Per questo, anche, il film è destinato a scatenare equivoci e discussioni. Dietro lo stile smagliante qualcuno vede retorica patriottarda. Per altri il sergente James è l'iperbole del soldato (del maschio) "condannato" alla guerra. La Bigelow, saggiamente, non spiega nulla, ma mostra un fenomeno (gli dà forma), con forza e coerenza. Come fa il buon cinema, sempre, di qualsiasi colore.
 

   
         
       Valerio Caprara - Da Il Mattino, 11 ottobre 2008

   Con Bigelow in Iraq tra i soldati Usa drogati dalla guerra

   Non è banale o retorico «The Hurt Locker», che rilancia alla grande Kathryn Bigelow. E c'è persino qualcuno che l'accusa di tendenze guerrafondaie per come affronta i crudi risvolti della tragedia irachena. Mentre proprio nel mantenersi incollato ai suoi personaggi (soldati di prima linea nell'inferno di Baghdad), la regista ribadisce rigore e carisma. Lo spunto deriva da un reportage sulle compagnie dell'esercito Usa adibite al disinnesco delle bombe: mentre i terroristi perfezionano ogni giorno in maniera più subdola le loro trappole, a fronteggiarli sono chiamati questi specialisti ad altissimo rischio, magari armati di semplici pinze. Il racconto è centrato sulla figura del sergente James, che sembra agire nella guerriglia con trasporto sadomasochistico: tra l'orgasmo di una sparatoria, la tensione insostenibile al cospetto del viluppo di fili e detonatori che emergono dalle auto, dai sacchetti di spazzatura o dai corpi dei kamikaze, l'uomo indurito e disadattato sopravvive in una trance permanente. Un signor film, che si fa apprezzare per come coglie il dramma individuale in una cornice corale ed evita gli slogan dozzinali in favore di un approccio destabilizzante perché obiettivo. La Bigelow riesce a esplicitare un concetto che non piacerà alle anime belle, ma assomiglia a quello paradossale di «Trainspotting», dove la seduzione della droga risultava micidiale perché voluttuosa, «piacevole»: l'abitudine a giocarsi in pochi secondi la pelle fa sì che molti soldati si trasformino in ossessi del rischio, in drogati dell'adrenalina.

   
         
       Roberto Silvestri - Da Il Manifesto, 10 ottobre 2008

   Dalla parte dei marines contro la guerra

   Si può fare un film contro l'aggressione in Iraq stando dalla parte dei soldati Usa? Sì. The Hurt Locker diretto con sapienza visuale insostenibile da Kathryn Bigelow, una militante atletica e adrenalinica della nuova sinistra Usa, ci proietta proprio dentro questo incubo. Essere costretti, per la pace, a fare un film di guerra. Dunque partecipiamo da dentro al lavoro delle unità speciali addette allo sminamento di strade, bombe a orologeria e kamikaze. È la pericolosa guerra dei «pacifisti» armati, un altro tipo di delirio suicida. Un film di guerra contro la guerra, dedicato non solo ai dissidenti ma anche a chi non sa, non può sapere dai media che succede a Baghdad.
Il sergente James (Jeremy Renner) sposato e padre di un pargoletto, capo di una unità speciale dell'esercito Usa, ha già disinnescato, tra Afghanistan e Iraq, quasi 900 tra mine, bombe e kamikaze. E non sempre munito di «scafandro» protettivo regolamentare. Anzi, anche se obbligatoriamente, a volte sfida la morte solo con un paio di pinze e, attratto dall'esperienza estrema, mette in pericolo costante i suoi uomini, il nero Sanborn (Anthonie Mockie) e il terrorizzato ma circospetto biondo Eldridge (Brian Geraghty), che non sempre reagiscono con garbo.
Ma la guerra dei volontari ben pagati è droga pesante, produzione di adrenalina a mezzo adrenalina, di paura a mezzo paura, e il sergente James, «soldato selvaggio», collezionista di reperti esplosivi inesplosi, pur sapendo che alcune intricate «composizioni dinamitarde» del nemico (introvabile, perché è qui, lì, ovunque) sono talmente devastanti da cancellare ciò che trovano nel raggio di 300 metri (come è successo al suo predecessore nell'Unità, Romeo, sbriciolato in un agguato ben congegnato), darà continue esibizioni di coraggio, fino ai confini della temerarietà: in campo aperto; nei labirintici vicoletti del suq; nelle piazze infarcite di cecchini sui terrazzi; infilando la sua mano nel ventre di un bimbo cadavere, il cui corpo è usato per nascondere nitroglicerina da rimuovere; di fronte a un padre di famiglia, solo e terrorizzato, perché imbottito (a sua insaputa?) di tritolo a orologeria, assicuratogli al corpo da più lucchetti che in una commedia di Moccia.
Non sarà «un pesce nell'acqua», James, ma quando indossa lo scafandro di protezione, casco compreso, sembrerà un esploratore nei più profondi recessi marini, degno di un eroe spericolato di Abyss, regia mitica dell'ex marito di Bigelow, James Cameron. L'armadietto ferito, forse si traduce così il titolo, è girato ai confini della Giordania, scritto da Mark Boal, reporter di guerra, prodotto e diretto dal maggio specialista in cinema d'azione visionario e alla caffeina pura (Strange days , Point break ). Bigelow qui raccorda insostenibili sequenze horror alla David Cronenberg (perché bisogna cercare di far sentire la pallottola che affonda nella carne viva, e non godersela al sicuro, come in un videogame) con l'analisi non cinica, psicologica e introspettiva, del più cinico e beckettiano dei conflitti, in uno stile diretto e senza orpelli, realistico e poetico «controvoglia», che sarebbe molto piaciuto a Robert Aldrich. Bigelow, come Haggis e De Palma, non fa cinema di propaganda a tesi o contro-informazione pacifista, ma così fabbrica pace: affronta il campo di battaglia, dopo approfondita analisi (grazie a interviste e reportage di prima mano, anche se embedded) con pennellate vigorose e ferocia espressionista, e dopo essersi ornata la faccia coi colori di guerra. Sconfigge il suo doppio nemico fanatico, di oriente e occidente, sul fronte, anche perché da una parte sceglie come eroi proprio i disinnescatori di bombe, insomma gli specialisti che fanno della salvezza di vite umane, e non dell'annichilimento scientifico, la loro missione.
E se, oltretutto, descrive i volontari americani così ossessionati dall'esperienza dell'accettare la vita fin dentro la morte (sempre più probabile, man mano che aumentano i giorni della loro missione), figuriamoci quanti adepti del dio testosterone troviamo nel «contro campo» e nel «fuori campo», tra i patrioti irakeni. Nascosto nell'ombra un intero popolo, non pagato da petrolieri, congegna trappole esplosive e agguati continui perché odia sempre di più chi li ha invasi senza motivo, come sentenzierebbe perfino un tribunale internazionale. Pronti a tutto, anche all'auto-immolazione completa, pur di resistere, perché il sacrificio di Masada è tradizione dei «musulmani» (e così i nazisti chiamavano gli ebrei nei campi di concentramento). Insomma dal luogo in cui si produce adrenalina di massa a livello davvero industriale, è bene andarsene, e subito. Anche perché un solo My Lai potrebbe diventare una sequela di Falluja. E si potrà capovolgere la cronaca qualche volta o convincere anche tutti di una notizia falsa, ma non convincere sempre e tutti solo con le falsità. In una scena del film, che imbarazza non poco, i soldati Usa ricordano, con raccapriccio e spirito partigiano, di quei 59 morti al mercato di Baghdad, soprattutto bambini, attirati nella trappola dalla distribuzione irachena di caramelle. E uno pensa: perché gli iracheni dovrebbero uccidere gli iracheni? Non è la solita forzatura «razzista» anti-araba specialità di Hollywood?
Ma ci si ricorda allora non solo dell'enfasi mediatica sugli sciiti che massacrano sanniti (e viceversa) ma anche delle rivelazioni su bombe israeliane travestite da bambole e lanciate ai piccoli durante i raid in Libano. E ci si ricorda ancor più di Izsak Rabin e della necessità di una cultura della trattativa. Infatti. Si pone oggi il dovere del ritiro immediato delle truppe di occupazione, «che solo un cambio di amministrazione potrà davvero effettuare in tempi rapidi», affermò a Venezia «e che solo Obama è in grado di ordinare». Bigelow vuole costringere alla riflessione, però, anche l'americano medio convinto che si stia lì per insegnare a un popolo la democrazia. Come fare? Aggiungendo, non togliendo, alle immagini potenza di fuoco, come insegnò Aldrich in Attack, e Jeremy Renner sembra proprio il pronipote dello sminatore Jack Palance. La guerra in Iraq ha già un bilancio di 4000 soldati Usa uccisi finora. E Bigelow ricordò invece che «abbiamo visto solo 4 fotografie delle loro tombe», citando il New York Times. «Non sappiamo nulla, non vediamo nulla di quello che succede a Baghdad. È la prima guerra tolta completamente al nostro sguardo, con una copertura mediatica esigua, mentre è crescente la fame di verità, di descrizione realista, veritiera, non stilizzata, anche da docu-fiction, di ciò che accade, dietro e dentro e oltre le poche immagini, anche censurate, della Cnn. Ed è un dovere morale dei cineasti, dunque soddisfarla: bisogna essere vicini alla guerra».
È un ragazzo iracheno che vende dvd taroccati davanti alla base militare Usa, gioca a pallone con lui e diventa via via l'unico amico arabo di James, il trait d'union di un contatto possibile tra i due mondi antitetici. Il suo soprannome è Beckham, ormai un divo calcistico anche a Washington. Quando James lo perderà di vista, e penserà che sia stato oggetto delle più atroci nefandezze, girando quasi come un pazzo nella notte infida di Baghdad, per scoprire la verità sul suo eccidio (e sarà poi cacciato da una casa, erroneamente presa come covo di terroristi, dalle randellate robuste di una casalinga feroce, James scoprirà quella parte di città, da mille e una notte, che ignorava. Un padrone di casa colto e poliglotta, affetto dalle ormai dimenticate, in Occidente, leggi dell'Ospitalità».

   
         
       Maurizio Porro - Da Il Corriere della Sera, 10 ottobre 2008

   Adrenalina pura nell' inferno Iraq

   La guerra è una droga, avverte Kathryn Bigelow alle prese con il suo film più maschile. E il cinema è adrenalina, in questo caso spesa bene, non per inutili fantasy. La storia scritta dal reporter di guerra Pulitzer Mark Boal ( cui s' era ispirato Haggis per The valley of Elah) parla del team specialista nel disinnescare mine in Iraq. La guerra è assuefazione come dimostra l' «eroe» protagonista che, dopo la licenza con salto in famiglia, torna in guerra: la coazione morale a ripetere. Il discorso a metà tra vero e finto, meno estremo di Brian De Palma in Redacted ma ligio alle categorie virili del western, fa nascere dalle rovine del cinema bellico una straordinaria storia in cui vengono prepotenti alla ribalta fattori umani, la pìetas (il bambino che vende dvd taroccati, il kamikaze esplosivo) di chi a volte ha solo un minuto per decidere tra vita e morte: è un poster per dichiarare la pace. Voto 8

   
         
       Boris Sollazzo - Da DNews, 10 ottobre 2008

   Dopo "Strange Days" l'adrenalinica Bigelow ci conduce all'Inferno

   La cassetta del dolore. È la traduzione del bel titolo del film di Kathryn Bigelow, straordinaria, controversa, potente artista visiva. Che sia la scatola degli effetti personali di un soldato caduto o il detonatore di un esplosivo, rimane un mistero. Nata pittrice e poi diventata regista, i film di Kathryn sembrano fatti apposta per essere cult da odiare o venerare. Il suo stile sincopato e veloce, la sua sensibilità, ci ha portato a esaltarci cavalcando le onde di Point Break, festeggiando l'apocalittico capodanno di Strange Days e ora ci prende a pugni nello stomaco disinnescando bombe in Iraq. Regista molto maschia anche se le sue donne, appena accennate hanno una femminilità fortissima- è sempre alla ricerca dei punti di rottura, di ciò che porta gli uomini all'estremo e allo stremo. Determinante è stato l'incontro con Mark Boal, già ispiratore di Paul Haggis per lo splendido Nella valle di Elah e qui coproduttore e sceneggiatore, inviato di guerra in Iraq ben poco embedded che le ha raccontato dell'unità speciale che disarma le bombe nei teatri di guerra. Un manipolo di uomini deboli e incoscienti, in perenne partita a scacchi con la morte. La cineasta si ubriaca di emozioni forti e contraddizioni, per lei e per chi l'apprezza l'adrenalina, l'eroismo, il superomismo che diviene alienazione è droga pura. Interessante e imperfetto, i primi 40 minuti di questo film sono cinema puro, vi troverete assediati e schiacciati dalla paura, catturati da questi astronauti terrestri che combattono la morte con un paio di pinze, per poi scivolare in un patriottismo ingenuo e superficiale. Ma sentirete dentro quello che di solito giudicate, e questo val bene anche metà film non all'altezza.

   
         
       Tullio Kezich - Da Corriere della Sera Magazine, 9 Ottobre 2008

   Arriva sugli schermi il film che avrebbe dovuto vincere il Leone d'oro a Venezia

   Avendo rinunciato da tempo a lavare la testa all'asino, ossia a polemizzare con le giurie, mi guardo bene dal sostenere che il verdetto doveva essere a favore di The Hurt Locker, lascio che parlino i fatti. l dieci critici che votavano su Ciak, il quotidiano della Mostra, hanno dato la preferenza al titolo di Kathryn Bigelow; e anche il pubblico, nella stessa sede, l'ha piazzato buon secondo dopo un delizioso cartoon di Miyazaki. Va detto inoltre che la brava regista, unica donna in concorso, ha collezionato non meno di 5 premi collaterali, mentre dal consesso ufficiale non è arrivato nessun riconoscimento. Se per Wim Wenders e compagni il film non è esistito, a me ha lasciato un'impressione profonda perché è forse la prima volta che ìl cinema di guerra affronta una realtà psico logica difficile da capire e ancor più da descrivere. Non si limita a constatare che ogni conflitto armato, nel nostro caso quella sanguinosa litania mortuaria che si trascina senza fine in Iraq, è il male in assoluto, ma ci fa toccare con mano come a questo inferno uno si può assuefare fino a non riuscire più a starne senza. È ciò che capita all'eroe impersonato da Jeremy Renner, uno specialista nel disinnescare le bombe più pericolose spesso presentato in una tuta corazzata tale da renderlo somigliante a un samurai o a un pilota spaziale. Insomma un alieno, un dannato morbosamente attaccato alla sua condanna. La guerra come vita: non è un messaggio vivido e doloroso sul quale vale la pena di meditare?

   
         
       Paola Piacenza - Da Il Corriere della Sera, 28 settembre 2008

   «Qual è il modo migliore per disinnescare uno di questi affari?» chiede il comandante ammirato al sergente. James, l'eroe che tra Afghanistan e Iraq, e tra mine, bombe e kamikaze, ha già collezionato 900 ordigni (qualcuno lo tiene come souvenir sotto la branda). «Quello in cui non si muore» è la risposta.

   Ognuno ha la sua droga. E la guerra è la più potente, come dice Kathryn Bigelow in The hurt locker il primo film diretto da una donna che racconta il fronte iracheno (ricostruito in Giordania), il primo che non abbracci una delle due cause possibili, pacifismo o patriottismo. Perché anche Kathrynn Bigelow - statuaria 57enne che fece esclamare a Gillo Pontecorvo, all'uscita dalla proiezione di Strange days, «Da come dirige sembra che abbia due palle così» - ha la sua droga. L'azione. di The hurt locker, che ha un titolo persino un po' psicanalitico, "l'armadietto del dolore", è questo: l'azione della guerra. Quella dell'unità di artificieri Victory («Prima ci chiamavamo Liberty. Victory suona meglio») addestrata a sfidare la morte ogni giorno armata solo di un paio di pinze. La copia carbone di quella con cui il giornalista embedded Mark Boal, sceneggiatore del film, ha trascorso il tempo di una missione in Iraq.

   Poetessa di categorie poco integrabili, vampiri, biker, serial killer; sperimentatrice da quando esordì come artista a cavallo tra Settanta e Ottanta nel circolo di Susan Sontag, Robert Mapplethorpe, Richard Serra, Philip Glass; adrenalinica, virile, tachicardica, «più violenta di Tarantino», Bigelow in due ore e 10, senza pause e pochissimi sconti, ci fa fare esperienza della guerra. «l'adrenalina, la pulsione omicida si mangiano tutto a cominciare dalla ragione: perché i soldati sono lì?» si è chiesto un critico.

   Il sergente James, lo sconosciuto Jeremy Renner, bravissimo come i suoi commilitoni Anthony Mackie e Brian Geragthy che la giuria del festival di Venezia dove il film era in concorso non ha, colpevolmente, considerato per la coppa Volpi, è nel suo mondo solo quando è sotto il tiro dei cecchini o alle prese con un padre di famiglia imbottito di tritolo a orologeria. Il più rassicurante degli scenari, l'infilata di cereali per la colazione del supermercato di casa durante una licenza, inveceè terra straniera.
A una a cui, credendo di fare un complimento, hanno detto per anni che «è brava perché dirige come un uomo», sarebbe bastato molto meno a garantirsi l'appellativo di "bushana". Eppure il filin non ha ancora una distribuzione in America. Da noi, in compenso, esce il 10 ottobre.

   Signora Bigelow, ha fatto un film militarista e filo-Bush?
«Ho raccontato una storia vera. Il giornalismo non ha fatto il suo dovere sull'Iraq. 4.000 morti e solo quattro immagini di tombe: è il dato del New York Times. È la domanda di verità è sempre più forte in America. Io volevo che la gente si mettesse nei panni dei soldati al fronte. Che provasse quello che provano loro. Psicosi e dipendenze comprese. Il film si apre con una citazione da Chris Hedges (già inviato di guerra del New York Times, premio Pulitzer, docente a Princeton, ndr): "La guerra è una droga"».

   Non è proprio uno scoop.
«Quando Mark Boal è tornato a casa dopo il periodo passato in Iraq con gli sminatori e mi ha raccontato di come sia il loro quotidiano: la vita in gioco anche quattro, cinque volte al giorno, uno dei lavori più pericolosi al mondo, ho deciso che quello era il mio film, che la psicologia di quegli uomini mi interessava. Sono volontari. Che tornano anche dopo aver esaurito la ferma. È la paura che genera assuefazione, la seduzione del combattimento e della morte, la necessità del nemico che è dappertutto perché non è da nessuna parte. L'ordigno nascosto sotto un cumulo di spazzatura, ai margini di una strada, in una borsa della spesa. Lo spiega anche Chris Hedges, nel libro War is a force that gives us meaning ("la guerra è la forza che ci dà significato") e vale a Sarajevo, come a Kabul e a Bagdad».

   Sicura che la verità oggi possa venire da giornalisti embedded?
«La verità è uno strano oggetto. Quando ho fatto K19 (film con Harrison Ford, sul sacrificio dell'equipaggio di un sottomarino russo in piena guerra fredda, altra storia vera, ndr) il punto di vista con cui ho guardato alla vicenda era russo. Russo al 100 percento. Perché i sopravvissuti e le vedove degli scomparsi mi avevano consegnato le loro storie. Qui il punto di vista è americano. Al 100 per cento. Ed è quello del reporter che ha vissuto con i soldati per settimane. Francamente, oggi, non vedo punto di osservazione migliore».

   Sette film in 25 anni, l'ultimo otto anni fa. Pigrizia oppure il sistema non è gentile con una donna «che lavora come un uomo»?
«Non ci sono storie con l'etichetta di genere. E, semplicemente, il sistema non è gentile con chi è disposto a prendere dei rischi. Filmare in Medio Oriente oggi è duro, e non perché ci sono 45 gradi, ma perché non riesci a trovare nessuno che ti segua. Due terzi dei tecnici che abbiamo contattato aveva paura...».

   Di lavorare in Giordania?
«La paura può più dell'ostracismo ideologico. Per questo ne hanno fatto un'industria».
Però star come Ralph Fiennes e Guy Pierce in Giordania con lei ci sono venute. E per piccolissimi ruoli. Un segno di solidarietà?
«Siamo una comunità. È normale che ci si aiuti. E i progetti di "true fiction, di "vera finzione", come questo sono pochi. Si saranno incuriositi».

   Ha deciso per chi voterà?
«Per l'unico uomo che possa riportare i soldati a casa. L:unico che abbia dichiarato di voler chiudere con questa guerra assurda. Obama. Non riesco a pensare a niente di peggio che a un ex soldato alla Casa Bianca».

   È una come lei che ha sempre messo in scena donne virili, al limite dell'androginia, che idea si è fatta della vice di McCain, Sarah Palin?
«Che rappresenti la capitolazione del suo genere e che altro non sia se non il risultato di un intelligente calcolo politico. Dobbiamo solo sperare che non sia troppo intelligente».

   Se il cambio di amministrazione non ci dovesse essere, qual è la prospettiva, la guerra eterna?
«AL la mia paura. Ed è la paura di sempre più gente in America. La mia speranza è che di fronte a noi stia per aprirsi una fase di transizione positiva. Sono ottimista. Inshallah».

   
         
       Marianna Cappi - da www.mymovies.it

   Un racconto solido, tra coraggio e alienazione, su quell'immmenso contenitore di alibi che è la guerra

   I 40 giorni al fronte, in Iraq, di una squadra di artificieri e sminatori dell'esercito statunitense, unità speciale con elevatissimo tasso di mortalità. Quando tutto quel che resta del suo predecessore finisce in una "cassetta del dolore", pronta al rimpatrio, a capo della EOD (unità per la dismissione di esplosivi) arriva il biondo William James, un uomo che ha disinnescato un numero incredibile di bombe e sembra non conoscere la paura della morte. Uno che non conta i giorni, un volontario che ha scelto quel lavoro e da esso si è lasciato assorbire fino al punto di non ritorno.
A distanza di sei anni da K-19, Kathryn Bigelow torna a parlare di guerra e di dipendenza, al confine –già più volte esplorato- tra coraggio e alienazione.
   Il racconto procede dritto e ansiogeno, come la camminata dell'artificiere dentro la tuta, vera e propria passeggiata sulla luna di un dead man walking; ci sono i crismi del genere – il soldato che ha paura, le scazzottate alcoliche- ma ridotti all'osso; e c'è l'eroe, un Davide che affronta il Golia dell'esplosivo a mani nude, del quale siamo portati a pensare che non abbia più niente da perdere, ma è vero il contrario.
   La Bigelow si è mossa, negli anni, fuori e dentro da Hollywood, ma a nulla varrà cercare in The Hurt Locker la denuncia estrema di Redacted, la messa in discussione di ciò che guardiamo, (non) sappiamo, permettiamo. L'immagine che la regista restituisce dell'Iraq non è nuova ed è certamente parziale, ma non è questo il punto. Quel che conta è il deserto dell'anima, il buio della guerra che s'avvicina e attira a sé un uomo intelligente (in grado di capire in pochi secondi il nemico che ha di fronte, il tipo di bomba) come il fuoco attira una falena.
   Gestendo il ritmo in modo straordinario, perché del ritmo (delle onde, del cervello, dell'azione) ha fatto da sempre l'oggetto della sua riflessione cinematografica, Kathryn Bigelow ha girato un film potente, che cede solo in qualche interstizio alla tentazione della spiegazione e del cameo inutili. Affidandosi alle cronache del reporter Mark Boal, ha elaborato e raccontato un danno apparentemente collaterale ma in realtà sostanziale, entrando come mai prima nella questione di genere (il maschile).
Chi dice che l'autrice è una donna che fa film da uomini, infatti, non dice tutto. In The Hurt Locker c'è un unico personaggio femminile, che occupa un numero insignificante di fotogrammi e una sola battuta del dialogo, eppure ne intuiamo subito la libertà, compresa la libera scelta di essere fedele ad un uomo che non c'è e non glielo chiede. Lo stesso uomo che ci viene mostrato, al contrario, schiavo del pericolo, dell'emozione forte a tutti i costi, di quell'immenso contenitore di alibi che è la guerra. Perché, per dirla in perfetto stile hollywoodiano, morire è facile, è vivere che è difficile. E questo, impossibile negarlo, è un giudizio chiaro e tondo.

   
         
       Monica Cabras - da www.filmup.com

   Dopo anni di permanenza in Iraq, un numero sconsiderato di vittime e un conflitto che ha creato mille polemiche, sembra che l'attenzione su quella parte del mondo vada via via scemando. Il film "The Hurt Locker", in concorso alla 65ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, ci riporta a quei deserti e quelle località martoriate, per vedere l'uomo oltre il soldato.

   La pellicola, diretta dalla regista Kathryn Bigelow ("K-19", "Point Break - Punto di Rottura") è tratta dalle dirette esperienze del giornalista e sceneggiatore Mark Boal, che ha documentato molti dei suoi giorni in Iraq in un reportage da cui si è ispirato anche il regista Paul Haggis per il suo "Nella valle di Elah".

   "The Hurt Locker" osserva da vicino un gruppo di soldati americani appartenenti all'unità speciale che si occupa di disinnescare bombe e ordigni esplosivi. Un compito di per se già abbastanza pericoloso, ma che svolto nel bel mezzo di un conflitto diventa una vera partita con la morte.
Dopo la morte del suo predecessore, il sergente William James, (Jeremy Renner, "28 Settimane Dopo", "L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford") prende il comando dell'unità, e subito si fa conoscere dai suoi sottoposti, il sergente JT Sanborn, (Anthony Macie, "8 Mile", "Million Dollar Baby") e lo specialista Owen Eldridge, (Brian Geraghty, "Bobby", "Jarhead"), per il suo fare incosciente, come se ridesse in faccia alla morte ogni volta che se la trova davanti, col rischio però di mettere in pericolo anche i suoi compagni.
La giornata e le occupazioni di questi uomini sono visti in maniera quasi visionaria, in questo film, dove si cerca di avvicinare lo spettatore, il normale civile, ad un punto di vista sulla guerra a lui spesso estraneo. In quest'epoca dove i soldati partono per il fronte per propria decisione, sembra quasi impossibile, infatti, che ci sia qualcuno che ancora è disposto a rischiare così tanto, anche solo per puro e lecito patriottismo. Ma il fatto è che la guerra entra talmente tanto nella mente e nel cuore di questi uomini, che a volte sembra che sia l'unica cosa che sappiano fare. Eppure, come si vede da questo film, i conflitti interiori sono molteplici. Ogni azione violenta rivolta verso un nemico, è una questione di vita o di morte, ma è pur sempre una libera scelta. Riuscire a distinguere tra paura e pericolo reale non è sempre facile, e il rischio di sparare ad un'innocente è elevato. Così come terrorizzante dev'essere disinnescare una bomba col solo ausilio di un paio di pinze, sotto i mirini dei cecchini, e con la consapevolezza che ogni respiro potrebbe ridurre in mille pezzi un soldato. Alla fine si finisce col non pensare e col prendere gli eventi di petto, e sperare solo che vada tutto bene.

   La regista descrive molto bene questa sensazione, e sembra quasi che i protagonisti abbiano assunto una dura corazza che li fa apparire di pietra. Ma il lato umano non è andato completamente perduto come si può pensare, al contrario è li pronto ad esplodere da un momento all'altro. Alla fine sembra sia solo l'adrenalina a farli andare avanti, e spesso è proprio la ricerca di quell'adrenalina che li fa tornare al fronte anche dopo finito il periodo di servizio. Come se fosse una necessità.
La pellicola appare molto complessa, e strutturata in modo quasi documentaristico. Non pretende di dare risposte, o di giudicare, ma solo di analizzare o più che altro di osservare a fondo un mondo che sembra sempre più lontano e indecifrabile.

La frase: "Prendila come ti pare�sei in Iraq, sei morto.".

   
         
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