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film
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Titolo del film:
MILK (Milk)
Regia:
Gus Van Sant
Soggetto e Sceneggiatura:
Dustin Lance Black
Fotografia:
Harris Savides
Musica:
Danny Elfman
Interpreti:
Sean Penn (Harvey Milk), Emile Hirsch (Cleve
Jones), James Franco (Scott Smith), Josh Brolin (Dan White), Diego Luna
(Jack Lira), Brandon Boyce (Jim Rivaldo), Kelvin Yu (Michael Wong),
Lucas Grabeel (Danny Nicoletta), Alison Pill (Anne Kronenberg),
Victor Garber (Sindaco George Moscone), Denis O'Hare (Senatore John
Briggs), Howard Rosenman (David Goodstein), Stephen Spinella )Rick
Stokes), Peter Jason (Allan Baird), Carol Ruth Silver (Thelma), Eric Stoltz
(Tom Ammiano), Douglas Smith (Paul Hogarth), Steven Wiig (McConnely),
Hope Tuck (Mary Anne White), Cameron Palmer (Medora Paine), Cleve Jones
(Don), Boyd Holbrook (Denton Smith), Cory Montgomery (Michael Davis),
Ashlee Temple (Dianne Feinstein), Adam Del Rio (Jerry Taylor)
Genere, durata e
nazionalità: Drammatico/Biografico, 110',
Usa |
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DUSTIN
LANCE BLACK - Premio Oscar Miglior
Sceneggiatura Originale
SEAN PENN - Premio OSCAR 2009 Miglior Attore Protagonista |
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Trama Biopic su Harvey Milk, il
primo politico americano apertamente gay ad essere eletto ad una carica
pubblica. Dopo aver vinto le elezioni nel 1978, dopo tre tentativi, per
la giunta comunale di San Francisco fu ucciso insieme al sindaco da un
altro componente della giunta il 18 novembre 1978. L'epilogo della sua
vicenda umana sconvolse la società americana ma le battaglie condotte da
Milk, un ebreo di New York che, arrivato nella West Coast in cerca di
una vita diversa, per le sue lotte contro le discriminazioni sessuali
era chiamato il 'sindaco di Castro', una circoscrizione di San
Francisco, avevano ormai dato i suoi frutti.
Note - SEAN PENN E' CANDIDATO AL GOLDEN GLOBE 2009 COME MIGLIOR ATTORE
PROTAGONISTA DI FILM DRAMMATICO. |
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Rassegna Stampa |
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Andrea D'Addio -
www.filmup.com
Dopo la trilogia
della morte (Gerry, Elephant e Last Days) e l’acclamato Paranoid park,
Gus Van Sant ritorna ad utilizzare un linguaggio più "tradizionale" per
raccontare gli ultimi otto anni di vita di Harvey Milk, il primo
americano gay dichiarato ad essere eletto per un ruolo pubblico
(consigliere comunale di San Francisco nel 1978). Una scelta, quella di
seguire passo passo una sceneggiatura ricca di dialoghi e abbastanza
serrata se si confronta con i quattro film precedenti, fatta perché ad
emergere sia la "storia" anziché l’autore. Van Sant mette Harvey Milk
davanti a tutto: che lo si conosca, che si comprenda ancor oggi quanto
sia stato importante per la parità di diritti, che il suo nome continui
a circolare come esempio di coraggio anche nelle nuove generazioni.
La passione con cui il regista si è approcciato al progetto è
riscontrabile proprio nella sua volontà di diventare invisibile, di
mettere in luce gli aspetti migliori della vita del politico
tralasciandone le parti più equivoche (lo stesso Van Sant ha detto,
nell’intervista rilasciataci, di aver tagliato su droga ed eccessi),
facendo sì che la macchina da presa riprenda l’intimità del suo
protagonista trovando il giusto equilibrio tra pudore e onestà. Né
enfasi, né ambiguità di vera maestria registica Van Sant ci mette la
capacità di montare materiale di repertorio con scene di finzione con
estrema naturalezza, e due scene ricche di pathos: il discorso al
pubblico dopo le minacce, e il tragico epilogo.
Nella sua eccezionalità, la vita di Milk è però, a livello
cinematografico, piuttosto lineare. Oltre al cuore del protagonista, ai
suoi sacrifici (personali: l’amore) in nome di un bene comune (la non
discriminazione), ad emergere (e forse era un punto su cui indugiare di
più) è il suo successo nell’avere creato un vero e proprio movimento di
pensatori, giovani che anche dopo la sua morte continuarono a lottare in
nome dell’uguaglianza. La bravura di Sean Penn, grandioso nella sua
somiglianza con Harvey Milk (presumiamo non solo fisica, ma anche nel
portamento, anche se non avendo visto il vero Milk non possiamo
assicurarlo), si accompagna alle altre dei personaggi di contorno (da
James Franco a Emile Hirsch, passando sul sempre più straordinario Josh
Brolin), per un film che se fosse stato più corale e un pò meno
agiografico, avrebbe reso ancor più grande la vita di questo eroe
contemporaneo.
La frase: "Ho vissuto per anni nel buio e non voglio
tornarci". |
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Marzia Gandolfi - da
www.mymovies.it
Harvey Milk è
omosessuale, è laureato in matematica e lavora presso una Società di
Investimenti a Wall Street. A un soffio dagli anni Settanta e dal suo
quarantesimo compleanno, Harvey incontra e ama (per sempre) Scott Smith.
Trasferitisi a San Francisco con un sogno di amore e di emancipazione,
Harvey e Scott aprono un negozio di fotografia nel quartiere Castro.
Davanti e dentro il Castro Camera si raccoglierà presto un gruppo di
giovani attivisti omosessuali, emarginati (dalla società) e diseredati
(dalle famiglie) alla ricerca di un sogno promesso e dei loro diritto
contro la campagna di intolleranza avviata dagli ultraconservatori.
Sostenuto dai suoi guys e da eterosessuali illuminati, Harvey si candida
alla carica di consigliere comunale per una, due e tre volte. La sua
terza campagna gli regala l'agognato incarico. Promotore della storica
ordinanza sui diritti dei gay e trionfatore sulla Proposition 6, che
voleva bandire gli omosessuali dall'insegnamento nelle scuole pubbliche
della California, Milk verrà assassinato dal livore e dalla frustrazione
di un ex consigliere. Trentamila persone marceranno da Castro al
Municipio in una veglia pacifica che dal Settantotto alimenta e sostiene
il sogno di Harvey.
Arrivano da una mala noche, dai drugstore rapinati, da uno squat gotico
di Portland o da un malfamato skate park, i guys di Gus van Sant,
raccolti e accolti nella Castro Camera di Harvey Milk, centro sociale e
umano prima che redditizia attività commerciale. Sono i belli e dannati
stroncati dalla morte sulle strade lontane da casa della sua filmografia
ma sono pure i cowboy fragili e consapevoli del Wyoming di E. Anne
Proulx o i mysterious boys di Gregg Araki, giovani vite in irrevocabile
rottura con l'universo familiare e rassegnati alla forza di un destino
già marcato. Disorientati e alla deriva, “mai pronti per Paranoid Park”
e per le rampe e i dossi della vita, i nati perdenti di Van Sant si
trasferiscono a San Francisco, dove questa volta diventano adulti e
maturi sfidando i “grandi”. Quelli che nei film del regista americano ci
sono senza esserci. Genitori divorziati, istruttori, insegnanti,
poliziotti, presenze sfocate che si offrono di spalle, incapaci di
ascoltare e di intendere, di esprimere e di comunicare. Il corpo giovane
dell'America, inghiottito dalla noncuranza degli “educatori”, incontra
Harvey Milk, politico e attivista negli anni Settanta, adolescente
sensibile e in fuga da un quotidiano ottusamente crudele negli anni
Quaranta. Harvey ha vissuto in una clandestinità “volontaria” la sua
omosessualità, fino a quando non ha incontrato Scott e poi Clive e poi
Jack, Dick, Jim, Danny. Folgorato da persone che versano in condizione
di svantaggio (l'omosessualità, ma anche l'etnia, l'origine ambientale,
il colore della pelle), le spinge a uscire dalla marginalità cui
sembrano obbligate e a lottare per i loro diritti.
Milk affronta l'età adulta del cinema di Van Sant, anticipata da Will
Hunting e Scoprendo Forrester. Un dittico, che nonostante l'evidente
riduzione dello spessore poetico dell'autore e il linguaggio mainstream
con il quale allestisce la rappresentazione, mantiene ugualmente le
caratteristiche peculiari della sua scrittura. Come lo psicologo di
Robin Williams e lo scrittore di Sean Connery, Harvey Milk è l'adulto
che interviene a mediare l'integrazione di eroi socialmente deboli,
trovando in quell'esperienza il coraggio di affrontarsi e affrontare i
propri fantasmi. L'elezione a supervisor di Milk è il riconoscimento
sociale del loro padre di adozione, “doppio” e “simile” che ricopriva
nella società un ruolo marginale. Sean Penn e James Franco, coppia
poetica che rievoca quella “da marciapiede” di River Phoenix e Keanu
Reeves, interpretano la libertà morale delle immagini di Van Sant,
indossando cravatta e norme sociali, e vivendo la loro storia “in
legittimità”. Rinunciando al disordine mentale e al mondo capovolto
abitato dai suoi adolescenti, alla singolarità del suo sguardo e a porsi
in netta contraddizione con l'industria cinematografica e la società
intera, il regista affronta un tema strettamente personale in un film
dal sapore convenzionale e raffinato. Scartando ogni scivolamento nel
pruriginoso per farsi ascoltare e frequentando un cinema ampiamente
battuto per farsi vedere, Milk riconosce ai cowboy e alle cowgirls il
diritto di esistenza e di replica. |
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Diego Carmignani - Da
Il Mucchio, n. 655, febbraio 2009
Morte, emarginazione, omosessualità.
Il Gus Van Sant di sempre, a lavoro nel suo dolente orticello, ma con un
appropriato respiro epico in aggiunta. Era il 1978 e il carismatico
Harvey Milk diventava il primo omosessuale dichiarato a coprire un
incarico istituzionale negli Stati Uniti, venendo eletto consigliere
nella giunta di San Francisco, capitale dell'orgoglio gay e invitante
Spoon River da cui il regista potrebbe trarre una saga senza fine. Negli
USA che cambiano faccia e pelle, Milk ha offerto una doppia
irrinunciabile opportunità: a Van Sant di confermarsi tra i massimi
sostenitori della causa gay e a Sean Penn di essere ricordato fra coloro
che pronunciarono "Yes we can" in quel memorabile 2008. La perizia dei
due, in particolare quella dell'attore (californiano doc), scongiura una
deriva tematica che poteva facilmente risultare patetica. Penn gestisce
a piacimento pieghe e cliché di un personaggio decisamente sopra le
righe, appariscente ma anche facile da far deragliare. Mette insieme la
fragilità e la caparbietà, l'affettuosità e la cocciutaggine, le lacrime
disperate e i bagordi festaioli. Insomma, un regalo confezionato per lui
dalla sorte e servito su un piatto d'argento proprio nel momento storico
più azzeccato. I connotati e la mimica da politicante assunti per
l'occasione non lo farebbero sfigurare in una corsa alla Casa Bianca,
fantasiosa deviazione dalla via sicura agli Oscar. Venendo al regista,
suo compito è stato quello di documentare il clima di paura presente in
America in quegli anni, segnati da campagne omofobiche, pestaggi,
rivendicazioni e conquiste. Il tutto è visto con gli occhi esclusivi
della comunità di Castro, feudo gay di San Francisco e osservatorio dove
si annidano pregi e difetti del cinema di Van Sant. Da un lato c'è
fedeltà alla storia e alla coerenza dei personaggi. Dall'altro, lo
spazio geografico che ospita l'escalation e la tragica fine di Milk
offre un solo punto di vista, scivolando forse nell'autoghettizzazione.
Al di fuori, pascolano gli etero, genericamente cattivi e benpensanti.
La riuscita di Milk è però indiscutibile. Di fallimentare c'è l'amara
contingente disfatta. Il film è stato proiettato in anteprima in
California a ridosso del referendum sulle nozze gay, svoltosi negli
stessi giorni dell'epocale trionfo di Obama e risoltosi con
un'inaspettata affermazione bigotta. |
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Lietta
Tornabuoni - Da Lo Specchio,
febbraio 2009
Con Milk,
storia di un militante gay adesso sugli schermi, si rafforza il filone
dei film con protagonisti omosessuali né comici né grotteschi né
disperati. Un traguardo felice raggiunto dopo molte difficoltà. Come
dimostrano le pellicole precedenti.
Vedendo Milk di Gus Van Sant, il film sugli ultimi otto anni di
vita di Harvey Milk, primo gay americano a venir eletto a un importante
incarico pubblico a San Francisco e ammazzato nel 1978 a 48 anni, si
possono capire diverse cose. Prima cosa, che il protagonista Sean Penn
diventa sempre più bravo: da quando nominandolo bisognava sempre
specificare «il marito di Madonna» o «l'ex marito di Madonna» perché
pochi lo conoscevano per nome, i suoi progressi di attore e di persona
sono stati straordinari. Seconda cosa, che il movimento gay americano ha
forse bisogno, oltre che dell'orgoglio e delle feste, pure di Storia,
della memoria di coloro che si sono battuti nel tempo per i diritti
degli omosessuali e per la loro parità civile, di eroi. Terza cosa, che
è forse finito il tempo in cui il gay era nei film esclusivamente un
personaggio comico o tragico, grottesco o melodrammatico, jolly o
vittima, ridicolo oppure patetico: for se si comincia adesso a
considerarlo una persona normale a cui capitano le peripezie positive o
negative che nutrono le sceneggiature.
Milk fa proprio quest'ultimo esercizio: nella biografia, Harvey
Milk è un uomo spiritoso e lieve ma senza manierismi né narcisismi, un
attivista coraggioso ostinato e serio ma senza pedanterie né altra
tragicità che la morte, un lavoratore compulsivo (prima broker, poi
negoziante, poi consigliere comunale) ma anche un amante affettuoso, un
elettore di destra sostenitore di Barry Goldwater ma anche un militante
per cause di sinistra. Certo non è il solo film a liberare i gay dai
condizionamenti del pregiudizio e dei luoghi comuni, ma è sinora il più
concreto, complesso eppure semplice. Evoca in certo modo Domenica.
maledetta domenica di John Schlesinger (1971), storia a tre
inglese, romanticamente malinconica, d'un ragazzo con Glenda Jackson e
con Peter Finch; oppure Il bacio della donna ragno di Héctor
Babenco (1985), tratto dal romanzo di Manuel Puig sull'incontro in un
carcere brasiliano di un omosessuale condannato per corruzione di
minorenne e di un politico del movimento clandestino di rivolta; o
ancora evoca Happy Together di Wong Kar-Wai (1997) su due
giovani amanti di Hong Kong autoesiliatisi in una livida Buenos Aires.
Anche se forse i film più naturali su coppie gay maschili sono quelli
recenti, l'americano I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee
(2005), il francese Baby Love di Vincent Garenq (2008) (così
«naturale» da rischiare una semplificazione eccessiva) e lasciando da
parte commedie quali Il vizietto di Edouard Molinaro (1978), le
storie più numerose nel cinema sono quelle in cui melodrammaticità e
pathos diventano strumenti di empatia per i protagonisti gay. Per
esempio, Marlon Brando, ufficiale dell'esercito innamorato d'un soldato
in Riflessi in un occhio d'oro di John Huston (1967) tratto da
un romanzo breve di Carson McCullers; Helmut Berger svestito e truccato
da Marlene Dietrich-Angelo Azzurro ne La caduta degli dei di
Luchino Visconti (1969); Brad Davis lungo il calvario del suo destino di
gay assassino e contrabbandiere d'oppio in Querelle di Brest di
Rainer Werner Fassbinder, ultimo film del regista prima della morte nel
1982, tratto dal romanzo di Jean Genet; Tom Hanks in Philadelphia
di Jonathan Demme (1993) in lotta nel tempo dell'Aids per riottenere il
posto in uno studio di avvocati dopo il suo licenziamento perché gay.
strano che quasi tutti siano film d'autore, belli, ben fatti,
struggenti, come è strano che questa stagione cinematografica 2009 offra
molti film con protagonisti omosessuali. Rappresenta un bel sollievo
veder spariti o quasi dai film comici i gay segnati fisicamente,
ciccioni e sederoni con mossette smorfiose e dita sfarfalleggianti,
attori atletici vestiti da donna con calze nere sulle gambe secche e
cadute dai tacchi alti, creature viscide, ragazzi belli o cinquantenni
dalle acute voci femminee e sfrenatamente allegri come in Priscilla,
la regina del deserto di Stephan Elliott. E magari c'è da sperare
che una integrazione del tema gay non diventi soltanto quattrinaia,
mirata a conquistare una fascia di spettatori sempre attenti e
appassionati. |
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Maurizio
Porro - Da Il Corriere della Sera, 30 gennaio 2009
Bello, civile,
tradizionale ma appassionato film biografico in cui Gus Van Sant
riunisce le sue due anime, quella di un autore di una super produzione
per chi ha votato Obama e quella off limits che si esercita, tra
finzione e documenti, sugli ultimi 8 anni di Harvey Milk: il primo gay
dichiarato eletto a una carica pubblica nel 1977 nella San Francisco di
Castro street e prontamente assassinato l' anno dopo da un collega della
maggioranza sessuofobica ma non silenziosa. In un incastro di tempi, con
inizio al registratore alla Billy Wilder, il film scorre con impeto
razionale senza cedere a commozioni e retoriche. Dopo i tre magnifici
film di Gus su una generazione autodistruttiva, Milk è un altro esempio
di morte annunciata ma che ci lascia in eredità un messaggio positivo e
una prova straordinaria e raffinata di attore, Sean Penn misurato e
ispirato come solo un etero. Voto 8,5 |
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Roberto Escobar - Da
Il Sole-24 Ore, 1 febbraio 2009
Il film di Van Sant racconta la storia di
Milk, primo gay dichiarato eletto a una carica politica in Usa. Come
nasce la paura del diverso.
Non ha ancora combinato niente di importante, Harvey Milk (un grande
Sean Penn). Lo dice lui stesso, in Milk (Usa, 2008, 128'). È il
1970, e il futuro leader dei gay di San Francisco – e primo gay
dichiarato eletto a una carica politica negli Usa – è tra le braccia di
Scott Smith (James Franco). Nella notte del suo quarantesimo compleanno
non ha motivi per esser fiero di sé. La sua vita scorre in un anonimato
grigio, dal lavoro in un'assicurazione, a New York, all'omosessualità
tenuta nascosta. Non ha forti convinzioni né spiccati ideali politici
(nella realtà storica, è un repubblicano con simpatie per Barry
Goldwater). Ha però una certezza: non arriverà a compierne 50, di anni.
Non è un film "militante", questo girato da Gus Van Sant e scritto dal
trentenne Dustin Lance Black. Non ha una tesi politica da illustrare, né
una biografia da celebrare. Il suo protagonista è un piccolo uomo
normale. Certo, "normale" va qui inteso in un senso molto meno
ideologico di quanto facciano il senatore John Briggs (Denis O'Hare) e
la cantante Anita Bryant ( lei stessa, in immagini di repertorio). Sono,
l'uno e l'altra, i capifila dell'attacco condotto nel 1978 in California
alla «Proposition 6», che sancisce la parità civile fra eterosessuali e
omosessuali, e in particolare contrasta l'ordinanza che, in varie
contee, stabilisce la licenziabilità degli insegnanti gay e dei loro
«sostenitori».
Per Briggs e Bryant, dunque, la normalità è un giudizio di valore, un
modello di vita, un'ideale psicologico e morale, un dovere civile e
politico. È normale, in questo senso, non chi cerchi, appunto
normalmente, di vivere la propria vita secondo le proprie inclinazioni e
opinioni, ma chi si uniformi a un sistema pregiudiziale di scelte,
comportamenti e idee che i due non esitano a dichiarar cristiani.
In effetti, verso la fine degli anni 70 – come ricorda il film –inizia a
manifestarsi negli Usa il peso politico della religione organizzata, in
particolare degli evangelici. In questa prospettiva fondamentalista, non
ci sono opinioni in legittimo conflitto tra loro, ma verità e falsità,
virtù e peccato. E non ci sono avversari politici, ma solo nemici.
Quanto ad Harvey e al suo Scott, invece, una vita normale sarebbe quella
che vanno appunto a cercare a San Francisco, a Castro, il quartiere che
diventerà poi una sorta di piccola città gay. Ma come possono viverla,
quella vita normale, se tutt'intorno poliziotti, bravi cittadini e
politici "normali" non ne riconoscono loro il diritto? Così, senza
appoggiarsi a un'ideologia né a una prospettiva religiosa assolutistica,
l'ex assicuratore pian piano trasforma il suo piccolo laboratorio
fotografico nel centro di un movimento organizzato.
Non nascondersi, non mimetizzarsi, dichiarare la propria sessualità e le
proprie scelte, questo diventa lo slogan, l'anima del suo impegno.
Insomma, il piccolo uomo grigio è costretto di fatto a uscire dalla
normalità in cui pure vorrebbe vivere. Diventa un leader, un capo in
grado di individuare mete, di stringere alleanze, di decidere battaglie
e scontri.
D'altra parte, Milk non è un'agiografia. L'autore di
Elephant (2003)e di Paranoid Park (2007) è interessato a
qualcosa di più inquietante. Il film inizia infatti su Harvey che, in un
giorno del 1978, ricorda al microfono di un registratore il senso della
sua vita, o almeno dei suoi ultimi 8 anni. Teme d'essere ucciso,l'ormai
Consigliere della città di San Francisco. E nel suo timore, nelle
ragioni del suo timore, sta il senso profondo del film di Van Sant e
Black.
Che cosa spinge molte donne e molti uomini a odiare e a perseguitare
altri uomini e altre donne solo per il fatto che la loro normalità è
appunto loro? Come si accenna all'inizio del film, l'intolleranza viene
(anche) dalla paura che questi, senza volere, fanno a quelli. Ossia,
dalla paura degli intolleranti di portare dentro se stessi
l'"anormalità", sessuale o anche solo psicologica e culturale.
Attaccare, conculcare, negare gli altri: questa diventa per loro la via
maestra per vincere la paura che hanno di se stessi, dentro se stessi.
In questo senso, l'altro protagonista di Milk è il Consigliere Dan White
(Josh Brolin), che ha fatto del suo cattolicesimo e della sua omofobia
il suo stesso programma elettorale. È attratto da Harvey, questo
"normale". Dunque, capovolge l'attrazione in risentimento, in furia
omicida. Non c'è altro modo, per lui, di negare il suo amore e insieme
di dichiararlo. Quanto ad Harvey colpito alla schiena con le pallottole
di un intero caricatore, sul suo volto Penn mostra lo stupore di chi si
trovi a morire a 48 anni, convinto d'avere ancora molte, troppe cose da
fare. |
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Roberto Nepoti - Da
La Repubblica, 23 gennaio 2009
Tra i migliori
registi in attività oggi, Gus Van Sant alterna film decisamente
indipendenti con produzioni mainstream, più tradizionali e interpretate
da star. Quel che è certo, è che non fa mai cose banali. Come in questo
Milk, biografia dell' attivista gay "nominata" all' Oscar (e prima ai
Golden Globes), sia come miglior film sia per l' interpretazione
(davvero notevole) di Sean Penn. Compiuti da poco i quarant' anni,
Harvey Milk si trasferisce con il compagno Scott nel quartiere popolare
di Castro, San Francisco, che sta diventando porto franco per gli
omosessuali, all' epoca apertamente perseguitati, picchiati, additati al
pubblico disprezzo come pericolosi pervertiti. Gradualmente, si scopre
una tempra di combattente e un forte istinto politico, un carisma di
eroe per caso che lo obbliga a farsi paladino dei diritti della comunità
gay. Bocciato più volte alle elezioni non si tira indietro, ma ritenta
fin quando, nel 1977, è eletto nel "board of supervisors" (i consiglieri
comunali) di Frisco, amministrata dal sindaco George Moscone. Da lì,
promuove una battaglia civile per difendere i cittadini dai
licenziamenti per orientamento sessuale; inoltre, deve parare i colpi
dell' integralismo religioso rappresentato da Anita Bryant (una specie
di Sarah Palin dell' epoca) e battersi contro un referendum statale che
mira a cacciare dalle scuole gli insegnanti gay e chi li sostiene. Abile
oratore, Milk affronta bene i dibattiti televisivi; ma soprattutto sa
mobilitare le piazze, con l' aiuto di un gruppo di giovani militanti che
ha convinto a sposare la causa. Anonimamente minacciato di morte, non sa
che il vero pericolo viene da un collega, Dan White, altro consigliere
eletto insieme a lui dietro la cui "normalità" di padre e marito
esemplare si cela la follia. Nei casi di biopic basati su vicende reali,
è uso compiacersi se il regista non fa il santino del protagonista. In
Milk, però, c' è parecchio di più. Van Sant immerge lo spettatore in un
perfetto contesto d' epoca, mischiando la pellicola nuova (trattata con
colori anni 70, alla "Woodstock") a riprese di repertorio, con l'
aggiunta di idee originali: come lo split-screen, il mosaico visivo che
suddivide lo schermo in tanti piccoli schermi, a restituire il
corrispondente visivo del "passaparola". Altro merito, quello di non
enfatizzare o additare troppo gli elementi già "forti" del film: come la
trasformazione della politica in spettacolo, per la quale gli anni 70
furono decisivi, o una sorta di fatalismo drammatico implicito negli
eventi (alcuni degli amanti di Milk si tolsero la vita). Saggiamente, il
regista sceglie la via del dramma a freddo, mentre delega l' implicita
essenza melodrammatica alle note di "Tosca", opera molto amata dall'
attivista. Quanto a Penn (ma ai Globes gli è stato preferito Rourke), si
cala nel personaggio con l' intensità dolente degli adepti del "metodo"
Actor' s Studio, tirando fuori la parte femminile che è in lui, come in
ciascun uomo. Lo contrasta bene Josh Brolin, che abbiamo appena visto
nella pelle di George W. Bush. |
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Lietta Tornabuoni - Da
La Stampa, 23 gennaio 2009
Sean Penn, che ha adesso 48 anni,
diventa sempre più bravo, coraggioso e maturo, come attore e regista,
come persona: davvero per questo Milk di Gus Van Sant dovrebbero
premiare con l'Oscar una sua interpretazione eccellente. Milk è Harvey
Milk, primo gay americano ad avere un incarico pubblico notevole a San
Francisco, popolarissimo attivista del movimento per i diritti degli
omosessuali, ammazzato a colpi di pistola (per intolleranza, per
invidia) nel 1978 a 48 anni, insieme con il sindaco della città George
Moscone.
Il film segue gli ultimi otto anni della sua vita, da quando,
trasferitosi da New York a San Francisco (uno dei pochi luoghi in cui
negli Anni Settanta i gay potevano vivere con relativa libertà), aprì
nel quartiere Castro un piccolo negozio di fotografia, divenuto presto
un centro di aggregazione e organizzazione per il movimento gay. Per
quattro volte, tenacemente, si presentò alle elezioni amministrative. La
quarta volta venne eletto consigliere comunale. Continuò sino alla morte
a battersi per i diritti dei gay, contro la Proposition 6 che intendeva
espellere i gay dalla scuola pubblica e da ogni ufficio statale, dando
appoggio all'adozione della Rainbow Flag, la bandiera arcobaleno, come
simbolo della LGBT (l'associazione di lesbiche, gay, bisessuali,
transgender). Per aver ucciso lui e il sindaco, il consigliere Dan
White, ex pompiere, scontò meno di cinque anni di prigione. Nel 1985 il
documentario The Times of Harvey Milk di Rob Epstein vinse l'Oscar.
Milk è un film bello, importante, appassionante: e non soltanto perché è
uno dei pochi in cui i gay non vengano rappresentati come vittime
tragico-sentimentali o come personaggi comico-grotteschi. Il regista Gus
Van Sant sa stabilire un equilibrio tra vita pubblica e privata, tra
militanti e amanti; sa evocare il movimento gay americano dei Settanta
non soltanto con esattezza storica, ma con assoluta mancanza di
manierismi; sa presentare le battaglie gay contro il pregiudizio come
lotte sindacali e insieme come avventure umane, non ancora concluse. E
Sean Penn, spiritoso, leggero, amoroso, senza alcuna retorica, ricco di
ardire, recita un personaggio bellissimo. |
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Boris Sollazzo - Da
Liberazione, 23 gennaio 2009
Già vedere il gay pride del 25
giugno del 1978 a San Francisco, con Penn-Milk in maglietta e
sorridente, e poi quel discorso prima del quale riceve una minaccia
scritta, vale il prezzo del biglietto. «Sono Harvey Milk e voglio
reclutarvi tutti!» ha il sapore del sogno di Martin Luther King, e Milk
di Gus Van Sant lo sa e vuole restituirci la vita e l'impatto politico
di un eroe civile dimenticato. Anzi, mai abbastanza ricordato. Alla
faccia di chi, cantante o presunto luminare, pensi che i gay vadano
curati.
«Non sei malato, non sei sbagliato e Dio non ti odia!», lo ripete a
tutti Harvey Milk (uno Sean Penn che la nomination all'Oscar la merita
tutta): a se stesso, ad altri omosessuali schiacciati dalla paura di un
outing rischioso che a lui ha dato una faticosa felicità, ai fanatici
che con la proposition 6, in quei movimentati anni '70 americani,
volevano precludere l'insegnamento a gay e lesbiche dichiarati. Lo
ripete a noi, che trent'anni dopo, fuori e dentro al Vaticano,
permettiamo un'omofobia sistematica e subdola. Lo ripete a Gus Van Sant,
che pur avendo svelato presto la sua identità sessuale, l'ha vissuta
maluccio: basta guardare i suoi antieroi che precipitano all'inferno, da
Elephant a Paranoid Park , maschi che girano a coppia e fanno sempre
danni. E il regista fa un passo indietro, rinuncia a quelle estetiche
soffocanti e rarefatte, ai dolorosi ritratti nichilisti per un racconto
classico, rotondo, un biopic che vuole arrivare a tutti: l'Academy
(sette nomination e concrete speranze di vittoria), il grande pubblico
(soprattutto gli etero, ecco perché sceglie un leader radicale ma
integrato), il senso comune. Muore a 48 anni Harvey Milk, e fino a 40
"dorme" a New York, agente di borsa e gay nascosto, sul lavoro e in
famiglia. Incontra Scott Smith (James Franco, molto sexy ma troppo casti
i due insieme) e cambia vita: va a San Francisco, nel mitico Castro
district che lui, tra boicottaggi e proteste, contribuirà a far
diventare quartiere gay, e si fa portavoce e attivista per i diritti
civili degli omosessuali. Cinque anni di trionfali sconfitte, tre
elezioni perse come consigliere comunale, poi l'arrivo in municipio,
primo gay dichiarato eletto a una carica pubblica negli Usa, con un
sindaco, George Moscone (Victor Garber), abbastanza furbo e aperto da
capire il potenziale di quest'uomo che in pochi anni ha unito sindacato,
anziani e gay. Moriranno insieme, per mano del rivale Dan White (Josh
Brolin), undici mesi dopo e l'Obama gay che parlava trent'anni prima di
speranza e cambiamento, finisce la sua corsa.
Gus Van Sant si diverte a giocare con Hollywood, gli ruba il meglio
(oltre a Brolin, Penn e Franco, Emile Hirsch, Diego Luna, Alison Pill) e
coadiuvato dalla sontuosa fotografia di Harris Savides e dalla gioiosa
colonna sonora di Danny Elfman, decide di mostrare la normalità
dell'essere gay. La bellezza di un periodo esaltante, l'entusiasmo
sessuale che solo un lustro dopo sarà schiacciato dall'arrivo dell'Aids,
le debolezze (la lesbofobia maschilista di alcuni gay, il narcisismo
gigione di Milk), di come una scelta tragica - lo porta pur sempre a una
morte violenta - sia l'origine però di anni da lui vissuti al massimo,
finalmente realizzato ed entusiasta. Van Sant ritrova la vitalità
sfacciata di Drugstore Cowboys e il didascalismo di Scoprendo Forrester
, qui necessario e non furbo espediente, viatico a un cinema politico
che cerca di abbattere barriere e non costruirle. Umano, empatico,
dolce, mai ideologico. E dissacrante, come la battuta geniale di Cleve
Jones (l'ottimo Hirsch) che sottolinea così una vittoria politica:
«adoro il sapore della vittoria, sa di sperma». |
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Fabio Ferzetti - Da
Il Messaggero, 23 gennaio 2009
Un ritratto insolito quanto
straordinario, dominato da un Sean Penn oltre ogni elogio. L'impagabile
spaccato di un'epoca, rievocata dal punto di vista eccentrico e
rivelatore di una minoranza. Una testimonianza commovente e insieme
fuori dagli schemi che vale anche come monito per la difesa di tutte le
minoranze e dei loro diritti. Oggi come ieri.
Otto nominations non sono troppe: il Milk di Gus Van Sant è tutte queste
cose insieme. Ma non pensate a un facile "biopic" d'autore, o a un
santino della controcultura. Per raccontare la parabola di Harvey Milk,
il leggendario attivista gay e poi consigliere comunale di San Francisco
che negli anni 70 segnò una svolta storica nella lotta per i diritti
degli omosessuali fino a quando fu ucciso da un collega nel novembre
1978, Gus Van Sant sceglie una strada meno spericolata di quella di
Elephant, Last Days o Paranoid Park, ma evita con cura le lusinghe più
spettacolari del genere. E non rinuncia alla libertà di tono che rende
il suo cinema sempre così caldo e personale.
Ecco dunque Milk, gay ancora "invisibile" nella New York del 1970,
trasferirsi col neocompagno Scott (James Franco) nella più aperta e
tollerante San Francisco. Eccoli aprire un negozio di macchine
fotografiche nel sobborgo popolare di Castro, tradizionalmente abitato
da morigerati cattolici irlandesi, gettando le basi di quello che
diventerà uno dei quartieri gay più famosi d'America. Ecco, mentre si
scontrano con l'intolleranza quotidiana dei vicini e con arresti e
pestaggi continui, prendere forma una carriera politica e un destino.
Che Gus Van Sant dettaglia a piccoli tocchi, usando la geniale e sempre
imprevedibile illuminazione del fido Harris Savides, ma anche salti di
tono e digressioni che mantengono il film in sapiente equilibrio fra
politico e quotidiano, vita pubblica e vissuto individuale.
È una strada rischiosa, ma è quella che consente al film di evitare le
trappole della celebrazione, malgrado qualche lentezza nella parte
centrale. Milk combatte e vince molte battaglie ma ci mette un po' a
essere eletto, e Van Sant racconta anche questo. Sullo schermo non c'è
solo la lunga e difficile lotta contro la temibile Proposition 6
(avversata perfino da Reagan), che mira a "ripulire" le scuole dagli
insegnanti gay. Ci sono anche le retrovie, gli intrighi, le astuzie, il
piccolo cabotaggio. E gli alti e bassi della vita privata di Milk, il
suo staff, le amicizie, gli amori, le esaltazioni e le depressioni.
Fino a quella morte assurda, una scena che vale da sola il film. Perché
nessuno come il regista di Elephant sa filmare il momento così
"americano" in cui la normalità trapassa in follia, la rabbia in
delitto. E di colpo, come ci ricorda il nastro-testamento inciso da Milk
quando iniziò a temere di venir ucciso, per milioni di persone diventa
impossibile dire "noi". |
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Giulia D'Agnolo Vallan - Da
Il Manifesto, 23 gennaio 2009
Arrivato nelle sale americane a
novembre, alla vigilia del Ringraziamento, e nel mezzo delle
quasi-rivolte che in California hanno accolto il passaggio della
proposizione 8, che ha reso illegali i matrimoni gay, Milk è la cronaca
di una morte annunciata - come Elephant, Last Days, Paranoid Park e
Gerry. Però, rispetto alla narrativa sparsa, alla spazialità
destabilizzante e al lirismo contemplativo degli ultimi quattro film di
Gus Van Sant, questo biopic sul consigliere comunale Harvey Milk e la
lotta per i diritti omosessuali anni settanta, è un lavoro strutturato,
articolato in un impianto classico, meticolosamente ricostruito, in una
sovrapposizione di fiction e documentario, quasi cauto. Un film
«adulto», che Van Sant sognava di fare da anni. E un film
involontariamente, quanto inequivocabilmente, del momento - anche al di
là dell'attualità californiana. La «serietà» del compito è chiara fin
dall'inizio. Non solo Van Sant si è affidato alla consulenza di uno dei
protagonisti della vicenda, Cleve Jones (collaboratore stretto di Milk):
il film apre con le immagini di repertorio dell'attuale senatore Diane
Feinstein (allora presidente del consiglio comunale della città) che
annuncia la morte di Harvey Milk e del sindaco George Moscone, uccisi da
un altro membro del municipio, e paladino dei «valori di famiglia», il
consigliere Dan White. È il 27 novembre 1978. A quel punto, lo stesso
Milk (Sean Penn, in una delle sue interpretazioni più ricche per
abbandono e sfumature) inizia con voce fuori campo il racconto della sua
vita. Le parole sono quelle del testamento spirituale che aveva
registrato con l'istruzione di renderlo pubblico «solo nel caso fossi
assassinato».
Cut e siamo nella metropolitana di New York all'inizio delle decade. Non
c'è ancora la promessa di un martirio, nell'incontro tra l'analista di
Wall Street segretamente gay, Harvey Milk e Scott Smith (James Franco),
il cherubino biondo che accetta di seguirlo a casa e sotto le lenzuola
per festeggiarne il quarantesimo compleanno.
All'insegna del «cambiamento», i due amanti partono per San Francisco
dove il negozio di fotografia che aprono nel Castro district diventa
centro di una fiorente comunità omosessuale. Nonostante l'uso di
immagini di repertorio che documentano gli scontri e i pestaggi della
polizia, Van Sant immagina Castro come una sorta di allegra Frontiera,
verso cui convergono centinaia di giovani pieni di energia. Un luogo in
cui il sesso ha una dimensione ludica, adolescenziale (come sempre nei
suoi film), prevalentemente monogama e il fantasma dell'Aids non aleggia
ancora. Su questo sfondo, Milk scopre la sua vocazione di attivista e
inizia un'instancabile (perse almeno quattro elezioni prima di diventare
consigliere) scalata al potere locale, in nome dei diritti civili gay.
Entusiasmante sollevatore di masse, ma anche astuto e spericolato
stratega politico, l'ebreo di Long Island sicuro che sarebbe morto prima
dei cinquant'anni ignora la prudenza (e la pruderie) dell'establishment
omosessuale della città in favore della lotta dichiarata, movimentista.
I suoi primi alleati sono i sindacati, che conquista promettendo
appoggio al boicottaggio della birra Coors, che sarà bandita dai bar gay
della città. Neri, ebrei, anziani, hippie, poveri... le campagne di Milk
hanno messaggi ad hoc per tutte le minoranze. Tra le sue battaglie più
feroci quella contro la proposizione numero 6. Concepita sull'onda del
successo nazionale della crociata repressivo/perbenista della pop singer
Anita Bryan, la Prop 6 avrebbe radiato gli insegnanti gay dalle scuola
della California. Diversamente dalla Prop 8, fu clamorosamente
sconfitta. «Se passasse dovete lottare come dei dannati», mettere le
strade a ferro e fuoco, aveva detto Milk ai suoi ragazzi - lui, primo
gay dichiarato a ricoprire una carica pubblica, non poteva più
permetterselo. È un invito destinato ad echeggiare nelle vie di Los
Angeles e San Francisco dove in questi giorni si protesta il bando alle
nozze gay - anche se quando Gus Van Sant ha iniziato il suo film, la
proposizione 8 non esisteva ancora.
Colpisce che Gus Van Sant abbia deciso di chiudere il suo film con le
immagini dell'immensa veglia funebre al lume di candela che si riunì per
l'addio ad Harvey Milk, e non invece con le rivolte scoppiate alla
notizia che il suo assassino se la sarebbe cavata con pochi anni di
prigione (la difesa passò alla storia sostenendo che le facoltà mentali
di White erano alterate dalla temibile junk-merendina Twinkie). Ma
quando Van Sant ha cominciato a girare la sua pellicola, la vittoria di
Barack Obama non era una certezza, anzi era un candidato improbabile, di
minoranza e un movimentista. Come Harvey Milk. E, in effetti, Milk è un
film «responsabile», come il nuovo presidente degli States. «Bisogna
dare alla gente speranza», sono le ultime parole del testamento
spirituale che Sean Penn pronuncia davanti al microfono di un vecchio
registratore. Il pensiero di Obama, trent'anni prima. |
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