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    Titolo del film: TROPIC THUNDER (Tropic Thunder)

Regia: Elio Petri

Soggetto e Sceneggiatura: Elio Petri, Ugo Pirro

Fotografia: Luigi Kuveiller

Musiche Ennio Morricone

Interpreti: Gian Maria Volonté (L'ispettore), Florinda Bolkan (Augusta Terzi), Gianni Santuccio (Il Questore), Orazio Orlando (Ispettore Biglia), Sergio Tramonti (Antonio Pace), Filippo De Gara (Agente all'interrogatorio), Arturo Dominici (Mangani, capo della omicidi), Vittorio Duse (Canes), Vincenzo Falanga (Pallottella), Aldo Rendine (Nicola Panunzio), Massimo Foschi (Signor Terzi), Aleka Paizi Cameriera dell'ispettore), Salvo Randone (L'idraulico), Ugo Adinolfi (Uno dei due fermati), Gino Usai (Uno dei due fermati), Giacomo Bellini, Giuseppe Terranova, Pino Patti, Franco Marletta, Roberto Bonanni, Fulvio Grimaldi, Giuseppe Licastro, Guido Buzzelli

Genere, durata e nazionalità: Drammatico, Italia (1969), 114'

   
         
    Trama

   Il capo della Squadra Omicidi di una grande città, soprannominato il "dottore", viene promosso per i suoi meriti a dirigente dell'Ufficio Politico della Questura. Proprio nel giorno della promozione, l'alto funzionario, che sotto l'apparente sicurezza e disinvoltura nasconde una psicologia normale, uccide Augusta Terzi, la propria amante, dalla quale è stato deriso. Anziché preoccuparsi di non lasciare tracce del delitto, l'assassino, certo di essere al di sopra di ogni sospetto in forza della posizione di potere che occupa, si impegna paradossalmente a moltiplicare gli indizi a proprio carico: le indagini intraprese dai suoi collaboratori - come egli aveva previsto - non lo sfiorano neppure. In seguito allo scoppio di una bomba nella centrale stessa della polizia, vengono fermati alcuni contestatori; tra questi c'è uno studente, Antonio Pace, che rivela al "dottore" di riconoscere in lui l'autore del delitto. Dopo essersi autodenunciato ai suoi superiori, il funzionario, ritiratosi nel proprio appartamento, immagina nella sua fantasia esaltata la più probabile soluzione del caso: per quanto numerose e schiaccianti possano essere le prove del suo crimine, i suoi superiori, più timorosi di uno scandalo che desiderosi di servire la giustizia, le smantelleranno ad una ad una, perché egli, come poliziotto, non può essere che al di sopra di ogni sospetto.

   
         
    Note

   REVISIONE MINISTERO NOVEMBRE 1995.
   PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA AL FESTIVAL DI CANNES 1970.
   PREMIO OSCAR 1971 COME MIGLIOR FILM STRANIERO.
   DAVID DI DONATELLO 1970 PER MIGLIOR FILM (DANIELE SENATORE) E MIGLIOR ATTORE (GIAN MARIA VOLONTE').
   NASTRO D'ARGENTO 1971 PER LA MIGLIOR REGIA E PER IL MIGLIOR ATTORE (VOLONTE').
   GROLLA D'ORO 1970 A VOLONTE' COME MIGLIORE ATTORE.

   
         
    Rassegna Stampa    
         
       Adelio Ferrero Cinema Nuovo - Recensioni e saggi 1956-1977, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2005

   L'interesse per chi sta dall'"altra" parte, quella dell'istituzione e del potere, è sempre stato molto vivo nel cinema italiano di denuncia e di opposizione (più presunta che effettiva): dal Germi di In nome della legge allo Zampa di Processo alla città e de Il magistrato - nomi e titoli di per sé eloquenti dell'ambiguità e reticenza di certe operazioni - sino al Rosi di Salvatore Giuliano e de Le mani sulla città, film anch'essi, e soprattutto il secondo, pieni di equivoci e contorcimenti. Al punto che un osservatore malizioso, ripercorrendo le cronache del nostro cinema "politico", potrebbe ricavarne qualche deduzione, abbastanza illuminante, sulla labilità dei suoi rapporti con le classi e i gruppi sociali di cui vorrebbe interpretare la volontà di critica o quantomeno, di riforma. [+]
L'interesse per chi sta dall'"altra" parte, quella dell'istituzione e del potere, è sempre stato molto vivo nel cinema italiano di denuncia e di opposizione (più presunta che effettiva): dal Germi di In nome della legge allo Zampa di Processo alla città e de Il magistrato - nomi e titoli di per sé eloquenti dell'ambiguità e reticenza di certe operazioni - sino al Rosi di Salvatore Giuliano e de Le mani sulla città, film anch'essi, e soprattutto il secondo, pieni di equivoci e contorcimenti. Al punto che un osservatore malizioso, ripercorrendo le cronache del nostro cinema "politico", potrebbe ricavarne qualche deduzione, abbastanza illuminante, sulla labilità dei suoi rapporti con le classi e i gruppi sociali di cui vorrebbe interpretare la volontà di critica o quantomeno, di riforma.
Certo, si tratta di un giudizio da verificare di volta in volta, sulle opere, evitando di rapportarle meccanicamente a uno schema rigido ed esterno. Ma bisognerà pur dire che, dalle opere, continuano a venirci conferme piuttosto che smentite di quell'impressione. È il caso anche dell'ultimo e molto acclamato (troppo) film di Elio Petri, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, che esce in un momento in cui il discorso sulla repressione si carica di un'attualità che rende superfluo qualsiasi commento. Sarebbe ingeneroso affermare che il regista lo abbia ignorato: l'intento polemico risulta, anzi, fin troppo scoperto nel violento discorso d'investitura del nuovo capo della squadra politica, o in certi interni della questura visti come scomparti e meccanismi di una macchina repressiva che mira al controllo totale della città, o nelle tirate sulla costituzione e sulla democrazia come copertura di una mentalità fascista e di una metodologia della violenza erette a vocazione e sistema. Tutto questo è presente nel film di Petri e talvolta, ad esempio nella sequenza dello "stagnaro" (come lo definiscono sprezzantemente i questurini) costretto a smentirsi e ad umiliarsi di fronte alla "legge", con risultati efficaci, di ferma indignazione morale.
E tuttavia Indagine non è un film sulla polizia ma il ritratto clinico-farsesco di un poliziotto: la distinzione potrebbe apparire capziosa se il regista fosse riuscito a delineare un personaggio emblematico del sistema e dei fini per i quali opera, un personaggio "medio" dunque, sul quale non si potrebbe mai costruire un romanzo ma se mai un profilo comportamentistico ricco di nervature istituzionali dietro e dentro la figura esteriore e "occasionale" dell'esecutore. E invece ci troviamo di fronte un personaggio che sembra uscito e ricalcato accortamente, se non da un'allegoria di Kafka o di Borges, come presume forse chi l'ha inventato, almeno da una commedia di Brancati o da un romanzo di Moravia, da La romana e dal Conformista a esempio.
Il caso di questo capo della sezione omicidi, e poi della squadra politica, in apparenza cosi clamoroso e sicuro di sé, con quella vernice di efficienza "scientifica" su un fondo borbonico, di volta in volta dispotico e paternalistico con i collaboratori e con chi gli capita sotto, è in realtà la storia di un'alienazione e di una nevrosi. Dietro quella facciata si nasconde infatti un uomo immaturo e tortuoso che ha bisogno di ribadire continuamente la propria autorità e il ruolo in cui si esercita, e in particolare nel rapporto sadico-professionale con l'amante.
Non a caso è dalla ritorsione irridente e beffarda della donna che scatta la molla dell'omicidio e dell'indagine che costituisce l'asse narrativo del film. E un fatto nevrotico e maniaco è anche all'origine della singolare sfida che il funzionario rivolge a se stesso e ai colleghi, lasciando dietro di sé una sequela di indizi che devono portare gli inquirenti sulle sue tracce ma non al suo arresto, al quale si oppone l'insospettabilità che la "legge" gli garantisce.
Questo giallo alla rovescia, dove l'assassino è noto fin dall'inizio e la meccanica del racconto non consiste nel modo di scoprire il colpevole ma di evitarlo, è condotto dal regista con notevole abilità ma non ha davvero nulla da spartire con l'analisi critica e la denuncia politica, che si riducono infatti a pesanti e grossolane intrusioni didascaliche nel tessuto di un racconto tutto costruito in funzione di un personaggio la cui aggrovigliata e contorta situazione individuale ne riscatta persino, sul piano della "psicologia" e delle situazioni, l'odiosità del ruolo e i modi in cui l'esercita. È dunque inutile che Petri, coadiuvato da un Volonté scatenato e prorompente, insista sui risvolti malati del protagonista (il rapporto ora infantile ora autoritario con la donna, il dannunzianesimo rivisitato e involgarito di questa e della sua casa in cui si ritrova la matrice "culturale" dell'uomo e la sua nozione del "proibito"). Certo anche la "malattia" poteva riuscire esemplare di una mentalità e di una disposizione (si pensi al moraviano Astarita de La romana), ma solo a patto di evitare il "dramma" intimo e nobilitante o di volgerlo, se mai, in grottesco derisorio, come Petri ha fatto, male e tardivamente, nella sequenza del sogno.
Ma la linea e il senso del film è un altro, e si risolve infatti nella costruzione esteriore, anche se non priva di una sua grossolana credibilità, di un carattere che, nell'alternanza di violenza rimorso e contorcimenti che lo caratterizzano, acquista persino un suo spicco su quella umanità madida e mediocre di subordinati. E i richiami, diretti o indiretti, a Kafka e a Pirandello non fanno che accreditare, sia pure nei modi esteriori e approssimativi in cui il racconto si snoda, quell'immagine di "diversità" se non di grandezza.
La conclusione più triste, anche se scontata (almeno per noi), riguarda l'impotenza dei nostri registi ad affrontare con un minimo di onestà e di rigore i discorsi politici che presumono di aprire. Ma ancora più triste, se non nuovo o sorprendente, è l'atteggiamento di quella critica di sinistra, ufficiale e maggioritaria, che appoggia e incoraggia simili equivoci. Accade così che un critico comunista prenda atto, sull' «Unità» del 14 marzo, con un candore disarmante, che «c'è stata una larga, se non completa, unanimità di consensi attorno a questo film da parte dei critici di giornali i più diversi, dall'"Unità" al "Corriere della Sera", a "Epoca", perfino (si noti il tardivo pudore della locuzione, ndr) a "Oggi". Si può dire che, con l'esclusione dell'estrema destra più ottusa (il corsivo è nostro, ndr), questo film è stato considerato, giustamente, come un'opera civilmente ispirata e a un livello artistico-culturale notevole». Dove la convergenza tra il quotidiano del PCI, l'organo confindustriale e un settimanale reazionario non insospettisce minimamente il nostro, anzi lo rallegra e inorgoglisce. Persino Petri, in un'intervista, si è lasciato sfiorare dal "sospetto", enunciato del resto con molta civetteria, di «aver inventato il "political spaghetti", un nuovo genere all'italiana che sostituisca lo "spaghetti western"».
Eppure il banco di prova non è mai stato così chiaro, forse, come in questa occasione. L'Indagine di Petri è apparsa nelle settimane dell'istruttoria sugli attentati di Roma e Milano e del processo Bellocchio e, misurata sul metro dei fatti, appare più equivoca che inutile. Ma è uscita anche, per una curiosa coincidenza, quasi contemporaneamente alla ripresa televisiva de L'infernale Quinlan, e considerato su quest'altro piano, della metafora in apparenza sganciata da qualsiasi riferimento diretto alla cronaca ma davvero più illuminante e feroce di interi fascicoli di documenti, il pasticcio socio-psicanalitico di Petri rivela tutta la volgarità della cucina in cui è stato confezionato. Tanto più che, senza scomodare Welles, i Dassin e gli Huston, i Lang e persino i Gordon Douglas e altri registi hollywoodiani hanno detto in passato, almeno a livello di denuncia e di proposta "riformatrice", molto di più, sempre a proposito di "abusi" e di "storture" certo, e non intaccando minimamente le strutture e le istituzioni del dominio. Ma perché, forse Petri lo fa? Da
   
         
       Goffredo Fofi - Il Corriere della Sera - Da Quaderni piacentini, n. 40, 1970

   Le reazioni del pubblico all’Indagine su un cittadino al disopra di ogni sospetto di Elio Petri sono contrastanti e curiose. Intendiamo, naturalmente, il pubblico delle prime; l’altro capirà probabilmente molto meglio, cioè il film gli servirà a capire meglio cose che ignora o sa fin troppo bene, a seconda delle sue identificazioni piccolo-borghesi o operaie. Alle prime, si va dagli applausi alle grandi risate; gli applausi da sinistra, le risate dai borghesi soddisfatti che, piuttosto che con lo studente o con Randone, s’identificano col poliziotto oppure stanno al di sopra, inconsciamente o consciamente sicuri della loro connotazione di classe e del fatto che il poliziotto è un loro servo (anche se il poliziotto del film vorrebbe non saperlo) e che si divertono alle sue smorfie come e meglio che con Sordi. [+]
Le reazioni del pubblico all’Indagine su un cittadino al disopra di ogni sospetto di Elio Petri sono contrastanti e curiose. Intendiamo, naturalmente, il pubblico delle prime; l’altro capirà probabilmente molto meglio, cioè il film gli servirà a capire meglio cose che ignora o sa fin troppo bene, a seconda delle sue identificazioni piccolo-borghesi o operaie. Alle prime, si va dagli applausi alle grandi risate; gli applausi da sinistra, le risate dai borghesi soddisfatti che, piuttosto che con lo studente o con Randone, s’identificano col poliziotto oppure stanno al di sopra, inconsciamente o consciamente sicuri della loro connotazione di classe e del fatto che il poliziotto è un loro servo (anche se il poliziotto del film vorrebbe non saperlo) e che si divertono alle sue smorfie come e meglio che con Sordi. Il limite è quello sostanziale del film di Petri: quello di essere essenzialmente non-marxista, di circoscrivere cioè l’analisi dei fatti a una descrizione di fenomeni, di evidenze, sia pure in un campo scottante e mai esplorato dal cinema italiano, e di spostarsi, quando lo fa, a un background di “grandi problemi” d’ordine più metafisico che storico o politico o sociologico o economico. Siamo convinti che la citazione di Kafka, per quanto consona a imbrogliare le piste del censore, sia in realtà una civetteria significativa e condizionante, che insomma Petri ci creda – in quella maniera abbastanza superficiale e culturalistica in cui credeva ai dilemmi di Franco Nero nello sproloquiante, per testo e immagini e velleità, Tranquillo posto di campagna. E tuttavia il film è buono, e importante. La serratissima costruzione “all’americana” da buona commedia di costume all’italiana, la levigatezza della forma (non fastidiosa e scoperta com’era in A ciascuno il suo) dimostrano in Petri maturità e capacità di scelta, e lo stagnaro di Randone fa da significativo punto di unione con l’altra sua opera valida, I giorni contati.
La perizia narrativa ha meriti di ossessività ed efficacia che dipendono in gran parte dal vigore dell’idea di base, del soggetto che impone come non mai una sua trama di calibro, ma in definitiva, il valore del film consiste in un altro dato: nel suo rapporto con un contesto reale odierno, con quegli elementi non fenomenici né metafisici, per i quali Petri si appassiona probabilmente di meno. Dipendono dal momento in cui il film cade. Senza certi fatti recenti, senza la tensione quotidiana di una lotta di classe in progresso e le sue contraddizioni a tutti infine visibili, primarie o secondarie che siano, il film avrebbe meno rilevanza, meno peso. E questo è o dovrebbe essere un buon insegnamento, non solo per Petri.
La drammaturgia borghese ci insegna che l’eroe, quando essere solo negativo. Welles ha spinto shakespearianamente all'estremo trattando più specificamente di eroi del male. Ma quest’eroe borghese negativo-maligno ha bisogno per essere sorretto di un background sociale fortemente contrastato, significativo e, in una parola, “grandioso”. O si è Citizen Kane e Madame Bovary. (Dall’altra parte, non può che esserci eroe quotidiano, cioè militante, cioè non-eroe. E se la letteratura e il cinema parlano ormai da tempo della impossibilità di essere eroi, perché per la massa la borghesia preclude comunque anche la possibilità di essere gran personaggio negativo, non sono minori le difficoltà di chi, a sinistra, voglia creare figure di “eroi comuni” della lotta per il socialismo senza cadere nella retorica dei santini. Difficoltà e non impossibilità, poiché tuttavia esiste il terreno della lotta per il superamento dell’individuo borghese, che ci ostiniamo a considerare tra quelli da privilegiare, e mai in realtà privilegiato dagli artisti cosiddetti di sinistra, e che offrirebbe il campo per definizioni esemplari del rapporto individuo e storia). Nel caso di Petri, così come è sintomatico che egli al pari di tutti riesca a vedere i personaggi “di sinistra” solo come figurine amorfe (qui gli studenti, simili a quelli di Cuore di mamma e ormai di un sacco di altri film), lo è altrettanto che il suo commissario non riesca a diventare un Quinlan. Ed è perfino scontato in partenza e non dipende da Petri. Il retroterra sociale del personaggio di Volontè è infatti semplicemente quello di un preciso disagio di una sottoclasse: la piccola borghesia meridionale che non ha terre o industrie o comunque potere economico o istituzionale diverso da quello che può ottenere, laurea d’avvocato alla mano e con estrema regolarità dal 1860 in poi, attraverso la burocrazia. Il meccanismo è kafkiano solo in ennesima istanza, ed è più precisamente quello del fascismo italiano. La latente coscienza di questa mancanza di potere reale diventa volontà di compensazione, ricerca di “virilità”, spinta a superare i limiti del mandato e tentativo di andar oltre al mero servizio alla borghesia e allo stato borghese. Questo meccanismo esclude la coscienza della complessità dei rapporti di potere e della totalità borghese che è di Quinlan, e che fa di quel personaggio un eroe del male, soprattutto a causa della minore complessità della società italiana in cui il “dottore” si forma. Il “dottore” scivola cioè nella metafisica, e con lui vi scivola anche Petri, se così si può dire, da una porta di servizio. La sua definizione non può che essere, in conclusione, grottesca e non tragica.
Sul piano più strettamente sociologico un altro rischio è presente, cui il regista non sfugge, ed è . quello della dimensione veteroromana del problema della polizia e del suo potere. Il suo poliziotto è della leva scelbiana d’origine fascista, è tipico degli anni Cinquanta. Una leva successiva lì come altrove c’è stata, molto più al passo coi tempi e col troiaio del neocapitalismo, una leva di influenza americana e “settentrionale” di cui nel film non c’è traccia, anche se non avrebbe sconvolto la ndda efficacissima di cento accenti del Sud. Sul piano psicologico, il problema del potere e della legge risulta unidimensionale e monoossessivo, per quanto realistico, e il personaggio di Volontè, splendidamente reso dall’attore, come “troppo tipico”. Chi è passato per le questure, o solo per qualche manifestazione, sa che è reale (e come!) ma ciò non toglie che la sua caratterizzazione possa apparire come peccante di “abuso di tipico” a causa delle mancate dialettizzazioni del contesto. Sul piano politico, infine, ne consegue una impressionante denuncia, che però, abolendo le correlazioni esterne alla questura (le altre fette e più vere del potere), sminuisce la sua stessa forza. Per fortuna del film, il contesto pensano a darglielo, come s’è detto, i fatti del giorno, l’epoca che si vive.
 
   
         
       Alberto Moravia - Da Al cinema, Bompiani, Milano, 1975

   Un commissario di polizia, chiamato dai suoi gregari “dottore”, prende a frequentare una certa Augusta Terzi, donna molto bella e un po’ demodé, del genere della donna fatale in voga mezzo secolo fa. Il “dottore”, di origine sicula, uomo giovane e pieno di vitalità, è fortemente deformato dalla propria professione. Anzi sarebbe più esatto dire che in lui l’uomo e il poliziotto si sono fusi inestricabilmente, di modo che entrambi coesistono continuamente così nell’ufficio come nell’alcova. D’altra parte il poliziotto è sempre presente col suo autoritarismo proprio perché l’uomo è profondamente insicuro. Tanto più insicuro l’uomo, tanto più prepotente il poliziotto. E tutto questo con una consapevolezza straziante così delle deficienze psicologiche dell’uomo come degli svantaggi sociali del mestiere di poliziotto. Un carattere così singolare e così eccessivo non può non piacere al palato stanco di Augusta, sempre alla ricerca, come avviene a molte borghesi oziose, di nuovi pimenti. Essa disprezza il “dottore”; ma al tempo stesso ne subisce il fascino di uomo di potere e per giunta di un potere direttamente collegato, sia pure per motivi repressivi, con i torbidi misteri del delitto. Si forma così, tra i due, un rapporto sadomasochista. Il “dottore” infierisce sulla donna come sui criminali coi quali ha a che fare nella sua professione; Augusta dal canto suo recita la parte della vittima succuba e provocante. Tutto questo fino alle percosse e alle scenate autoritarie, da parte del “dottore”: fino a farsi fotografare nelle pose scomposte della documentazione medico legale, da parte di Augusta. Ma Augusta un giorno tradisce il suo amante poliziotto con un giovanissimo contestatore e capellone che abita nella sua stessa casa. Il dottore non pretende la fedeltà; ma il rispetto, sì. Purtroppo Augusta, forse per provocarne il sadismo, gli rimprovera, durante una scena di gelosia, di non essere un amante efficiente ed esperto. Allora, tutt’a un tratto, scatta la segreta molla sessuale dell’autoritarismo piccolo. borghese del commissario. L’offesa alla sua maschilità è in realtà un’offesa alla sua dignità professionale; il rivale, a sua volta, cessa di essere un ragazzo qualsiasi: è il sovversivo che complotta contro lo stato di cui lui, il “dottore”, è il difensore. Durante un amplesso, il “dottore” va al di là delle solite finzioni sado-masochistiche. Con una lametta taglia la gola all’amante. Ma il “dottore” è il capo della squadra omicidi. Così gli tocca fare delle indagini sopra se stesso. Qui lo soccorre la propria dissociazione, tra il poliziotto e l’uomo, di tipo chiaramente schizoide. Il poliziotto è tanto sicuro del suo potere autoritario da scaricare tutta la colpa sull’uomo; poi, grazie alla identificazione tra i due, il poliziotto farà scomparire l’uomo e il gioco sarà fatto. Il “dottore” però vuole stravincere. Vuole sfidare se stesso e gli altri, per dimostrare ai di là di ogni dubbio, che un commissario di polizia non è mai sospettabile né veramente colpevole, qualunque cosa faccia e che, alla fine, comunque, la sua funzione di difensore dell’ordine peserà sulla bilancia dell’utilità sociale più di qualsiasi delitto. Così semina apposta indizi, provoca, finisce per autoaccusarsi di fronte ai suo diretto superiore, il questore. A questo punto dovrebbe scattare la conclusione. Il “dottore” dovrebbe essere incriminato o assolto sia che venga considerato “uomo” oppure “commissario”. Il “dottore” si getta esausto sul letto e sogna di essere considerato “commissario” e dunque assolto e confermato nella sua funzione. Poi si sveglia nel momento in cui i suoi colleghi, questore compreso, irrompono nella sua casa per interrogano. Che faranno? Come risolveranno il dilemma? Non ci è dato saperlo. Elio Petri con questo suo Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto ha fatto probabilmente il suo film più riuscito e più felice. Il temperamento artistico di Petri è piuttosto insolito nel nostro cinema. Da una parte c’è una capacità di presa sui reale, grezza ma efficace, di specie verista; dall’altra un’inclinazione irresistibile alla speculazione sofistica, psicologistica, ideologica. Si pensa a un certo Pirandello umoristico e contorto dei racconti di ambiente piccolo-borghese romano. Petri sinora aveva mirato a una tematica non sua, poco adatta all’innato verismo (Un tranquillo posto di campagna) oppure al film commerciale, sia pure con ambizioni espressive (La decima vittima). Con questo suo ultimo film, invece, ha colpito nei centro del bersaglio. Ha scelto un ambiente e una mentalità che mostra di conoscere molto bene: quelli della burocrazia piccolo-borghese romana nella sottospecie della polizia; e li ha messi da sfondo a un personaggio tipico dello stesso ambiente, ma dotato, pirandellianamente, di un meccanismo dialettico interiore. Bisogna però notare a questo punto che l’umorismo di Pirandello è fine a se stesso; nei suoi racconti la piccola borghesia scompone le proprie convenzioni senza uscire dai limiti di classe. Nel film di Petri, invece, mentre da una parte il protagonista smonta coi suoi monologhi i valori di autorità e di potere, il regista dall’altra proietta su questi valori una luce derisoria, cioè fa una satira muovendo da posizioni esterne alla classe. Il film tuttavia è principalmente basato sulla schizofrenia del “dottore”. Togliete di mezzo questo personaggio allucinato e nevrotico o meglio fatene un mero tipo sociale e avrete uno dei soliti film sul costume italiano anche se con un argomento insolito. La trovata di Petri (e dello sceneggiatore Ugo Pirro), accanto a quella di mettere il personaggio contro se stesso, è stata di farlo parlare con l’accento siciliano; ma di fargli dire, con quest’accento, soltanto i luoghi comuni del linguaggio medio italiano. Gergo aulico e “statale” su un fondo dialettale: il dramma linguistico (e, dunque, anche sociale) della nostra piccola borghesia è tutto qui. Resterebbe adesso da parlare del carattere attuale del film, il quale contrappone drammaticamente contestazione e autorità nelle loro accezioni estreme di rivoluzione e di rèpressione. Ma il nostro parere è che la contestazione studentesca, pur essendo rappresentata con indubbia efficacia, potrebbe essere sostituita da qualsiasi altra rivolta contro 1” ordine”, senza per questo cambiare il senso del film. Studenti e poliziotti rimangono sullo sfondo. I due veri personaggi sono il “dottore” e Augusta. L’interpretazione di Gian Maria Volonté, nella parte del “dottore” è senz’altro eccellente. Volonté sa essere insieme poliziotto e criminale, uomo tormentato e burocrate infatuato. Accanto a lui Florinda Bolkan, forse per la prima volta, riesce a superare i limiti della propria bellezza e a essere un personaggio. Assai efficaci Sergio Tramonti nella parte dello studente rivale, Gianni Santuccio in quella del questore e Salvo Randone in quella dell’idraulico.
 
   
         
   

   Tullio Kezich - Da Tullio Kezich, Il Mille film. Dieci anni al cinema 1967-1977, Edizioni Il Formichiere

   Mentre l’opinione pubblica dibatte il tema della repressione sindacale e politica, ecco un film dove il protagonista afferma perentorio: «Repressione è civiltà». Si tratta ovviamente di un eroe nero, brechtianamente assunto a fulcro di una parabola aggressiva. Elio Petti e Ugo Pirro hanno immaginato che un alto funzionario di PS compia un delitto il giorno stesso della sua promozione da capo della sezione omicidi alla guida della squadra politica. Il poliziotto uccide l’amante perché è un carattere infantile e mortificato, ma anche per una specie di sfida ai colleghi-rivali. Nel corso del film egli oscillerà fra il desiderio kafkiano di offrirsi al coltello vendicatore e la naturale tendenza a non farsi scoprire: l’ironia sta nel fatto che tutta la macchina della giustizia, non riluttante a travolgere gli innocenti, offre di continuo al servo della legge le scappatoie per farla franca.

  Se il paradosso non è sempre lucidissimo, a volte genialmente fantasioso come nell’episodio delle cravatte con Salvo Randone, a volte più greve come nel sogno del protagonista in sottofinale, medita e graffiante è la rappresentazione dell’ambiente di questura dove si svolge gran parte della vicenda. Niente di nuovo per società più democratiche della nostra, nel cinema americano si vede ben altro e non da ieri: ma qui e ora il film di Petri potrebbe produrre un benefico choc. Soprattutto considerando le scene in cui la fantasia si salda alla verità, con lo scoppio delle bombe e le operazioni di polizia che ne seguono: il lettore attento dei quotidiani vi troverà utile materia per riflettere poiché a volte la realtà sorpassa la finzione. Gian Maria Volontè è il più interessante attore del cinema italiano e qui ce l’ha messa tutta, in una raffigurazione bieca e spregiosa del mostro poliziesco: più bravo nei momenti in cui si stacca decisamente dal naturalismo imitativo per diventare epico, proprio nel senso indicato da Brecht.  

   
         
       Giovanni Grazzini - Da Corriere delle Sera, 13 febbraio 1970


   Una delle colpe della mia generazione - dice il quarantenne Elio Petri - è di non avere contribuito abbastanza alla costruzione di una società veramente democratica». Evidentemente insoddisfatto della brava battaglia combattuta contro la mafia con A ciascuno il suo, Petri sbarca dunque, armi e bagagli, nel cantiere in cui si stanno gettando le fondamenta della democrazia: nel costume civile italiano e nei meccanismi psicologici che ragioni storiche e sociali hanno alimentato. Poiché, secondo Petri e il suo sceneggiatore Ugo Pirro, una delle falle più gravi è rappresentata dagli arbitrii che comporta il principio d’autorità e dalla corrispettiva paura dei cittadini nei confronti della legge, ecco un film, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, che prende il problema di petto, chiamando a protagonista nientemeno che un immaginario funzionario della questura di Roma. [+]

   Una delle colpe della mia generazione - dice il quarantenne Elio Petri - è di non avere contribuito abbastanza alla costruzione di una società veramente democratica». Evidentemente insoddisfatto della brava battaglia combattuta contro la mafia con A ciascuno il suo, Petri sbarca dunque, armi e bagagli, nel cantiere in cui si stanno gettando le fondamenta della democrazia: nel costume civile italiano e nei meccanismi psicologici che ragioni storiche e sociali hanno alimentato. Poiché, secondo Petri e il suo sceneggiatore Ugo Pirro, una delle falle più gravi è rappresentata dagli arbitrii che comporta il principio d’autorità e dalla corrispettiva paura dei cittadini nei confronti della legge, ecco un film, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, che prende il problema di petto, chiamando a protagonista nientemeno che un immaginario funzionario della questura di Roma.
   Segniamo in rosso questa data: piaccia o meno il film, è la .prima volta che il cinema italiano si butta a capofitto sull’ambiente della polizia e che la censura se ne rallegra. Se si pensa alla libertà con cui il cinema americano, da tempo immemorabile, porta sullo schermo poliziotti corrotti e scopre ignominiosi altarini perfino nella Casa Bianca, è difficile negare che l’uscita del film, nonostante la strumentalizzazione che ne sarà fatta, costituisce un importante passo avanti verso una società più adulta, tanto sicura di sé e della democrazia da potersi permettere di criticare istituti tenuti per sacri senza doversi continuare a difendere dietro al medievale paravento del reato di vilipendio. E questo si dica anche nei confronti di chi dà un’immagine apocalittica dell’Italia postsessantotto, augurandole quale toccasana regimi in cui il regista comunista Elio Petri, con un soggetto come questo fra le mani, andrebbe diritto in un Lager.
D’altra parte il film, partendo dall’analisi d’una situazione locale, va ben oltre i nostri confini. Sollevatosi dallo choc derivatogli dal vedere colpito un tema a lungo considerato tabù, lo spettatore intelligente (ce n’è, ce n’è) non avrà difficoltà a comprendere che la polemica di Pirro e Petri, pur rabbiosissima, è qualcosa di diverso, da un pamphlet contro la polizia italiana: è il «diario d’uno schizofrenico», la denuncia di una nevrosi che la cornice storica ha portato a estreme conseguenze e che si sta trasferendo dal privato al collettivo. Più in generale, è un lamento sulla deformazione morale e mentale cui conduce l’esercizio del potere quando è privo di controlli. A un livello filosofico (non a caso il film si chiude con una citazione da Kafka) è la contemplazione della miserabile condizione dell’uomo, servo d’un Principio superiore, del mito della Legge e dell’Ordine, cui sacrifica la propria libertà e quella altrui.
Non impressionatevi. Il film di Petri, dopotutto, è un «giallo» tanto più saporito quanto più l’assassino, preso al laccio della paranoia, dissemina il terreno di indizi quasi per provocare se stesso. Il «ragionamento» fatto dal capo della squadra omicidi testé nominato capo della squadra politica (o meglio l’alibi che gli fornisce il suo inconscio devastato dal delirio professionale e dalle aberrazioni della sua amante) è all’incirca il seguente: per sapere se la macchina poliziesca di cui io sono una ruota è oliata a dovere, e se dunque io vivo nella realtà, vediamo cosa accade quando un poliziotto del mio rango compie un omicidio, e fa di tutto per mettere i colleghi inquirenti sulla buona strada. Se le indagini, arrivate al suo nome, deviano spontaneamente, vuoi dire che i conti tornano, che la funzione di tutore dell’ordine comporta come automatico appannaggio la certezza del diritto. Identificandosi l’autorità con la verità, anche il rovescio si realizza: lo studente che vuol cambiare sistema sociale, e manifesta in piazza, è un sovversivo, un criminale, un folle che vive nell’irrealtà. Dunque, giù botte.
   La verifica si compie puntualmente. Il questurino uccide con una lametta l’amante, una sadomasochista che lo tradiva e lo umiliava, e sparge a bella posta tutta una serie di prove che lo accusano, ma nessuno lo sospetta, e chi ha qualche dubbio se lo tiene per sé. Poi l’assassino si accorge d’essersi spinto troppo avanti, e comincia a temere di essere scoperto, ma a questo punto è la macchina che gli viene in soccorso: fermato un gruppo di studenti per lo scoppio di certe bombe, al nostro sembrerà facile manovrare le cose in modo da far convergere i sospetti proprio su un capellone che potrebbe testimoniare contro di lui. Se qualcosa s’inceppa è perché il ragazzo, inconsapevole alter ego del poliziotto, ragiona come lui, limitandosi a ribaltare i termini del sofisma: io non ti denuncio perché al mio assolutismo fa comodo credere che quanti dirigono la repressione politica sono tutti criminali come te. Ormai poco importa come la cosa finisca (che il nostro confessi il crimine, sogni di non essere creduto, e il pubblico venga dimesso su un punto interrogativo): il sugo del film sta per noi in questo confronto tra due posizioni estreme, nella giustapposizione di due fanatismi demenziali che rischiano di bloccare la crescita razionale del consorzio civile e di trasformarlo in una rissa sanguinosa.
Petri, preso alla gola dall’attualità, e probabilmente compiaciuto del suo ruolo scandaloso, ha insistito su un solo versante, forzando le tinte nella pittura dei metodi polizieschi.
Ma basta scalfire con l’unghia il suo film, ricordare il timbro esistenziale che accompagna la sua opera precedente, per toccarne il tessuto più vero, intinto di angoscia storica espressa in forme di paradosso. Impressione accentuata dalla struttura narrativa, da quell’aprirsi e chiudersi del film su toni grotteschi (il delitto iniziale, il rinfresco sul finire) che stringe in una tenaglia di sarcasmo il cuore realistico del racconto. Sicché dovremo guardarci, e dovrà guardarsi soprattutto lo spettatore allarmato, dal collocare l’Indagine tra gli esempi d’una pubblicistica d’opinione che fa esclusivo riferimento alla cronaca italiana. Questo è senza dubbio cinema politico, ma il suo discorso è a raggio più largo di quanto non voglia sembrarci: ha più parenti in certo beffardo cinema dell’Est, soprattutto cecoslovacco e ungherese, impegnato nell'analisi degli arbitrii che ‘comporta l’uso dell’autorità, che non nella polemica piazzaiola di certi nostri dell'epoca.
Realizzato con grande maturità di linguaggio, con un taglio asciutto e un ritmo che soltanto nella seconda parte perde qualche colpo, il film si giova d’un’ottima interpretazione di Gian Maria Volonté e di Florinda Bolkan. Mentre a quest’ultima sta a pennello la parte dell’amante che gioca alla cronaca nera, Volonté ha costruito il suo poliziotto con grande bravura riuscendo a far coincidere in un ritratto memorabile i connotati psico-somatici del personaggio e dell’interprete. Nel coro, benissimo affiatato, delle figure di contorno fa spicco, naturalmente, Salvo Randone.
   
         
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