i film
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Titolo del film:
IL BAMBINO CON IL PIGIAMA A RIGHE (The Boy in the
Striped Pyjamas) Regia: Mark Herman Soggetto: Tratto dal romanzo omonimo di John Boyne Sceneggiatura: Mark Herman Fotografia: Benoît Delhomme Musica: James Horner Interpreti: Asa Butterfield (Bruno), Jack Scanlon (Shmuel), Amber Beattie (Gretel), David Thewlis (Padre), Vera Farmiga (Madre), Richard Johnson (Nonno), Sheila Hancock (Nonna), Rupert Friend (Tenente Kotler), David Hayman (Pavel), Jim Norton (Herr Liszt), Cara Horgan (Maria) Genere, durata e nazionalità: Drammatico, 100', Gran Bretagna |
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Rassegna Stampa | |||||
Francesco Lomuscio - da
www.filmup.com
Dall’inglese Mark Herman, regista di
commedie del calibro di "Tutta colpa del fattorino" (1992) e "Grazie,
signora Thatcher" (1996), mai ci saremmo aspettati la trasposizione su
celluloide de "Il bambino con il pigiama a righe", premiato romanzo
scritto dall’irlandese John Boyne che, ambientato negli Anni Quaranta,
tenta di ribadire in maniera tutt’altro che allegra quanto un valore
come l’amicizia possa unire ciò che le barriere dividono. |
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Roberto Nepoti - da
La Repubblica, 19 dicembre 2008
È coraggiosa, e molto insolita, la scelta della Disney di far uscire a Natale un film come Il bambino con il pigiama a righe. Nei titoli saltano agli occhi alcuni nomi coinvolti nella saga di Harry Potter: David Heyman, che ne ha prodotto tutti gli episodi, e l' attore David Thewlis, che vi ha interpretato il personaggio del professor Lupin; eppure, come film destinato ai bambini, questo è tutto fuorché spensierato e consolatorio. Il soggetto riguarda la Shoah; con alcune situazioni e un esito, però, da far sembrare "La vita è bella" di Benigni una commedia ottimistica. All' origine c' è un best-seller del giovane scrittore irlandese John Boyne (e tutto il film ha un' impronta cosmopolita: attori britannici e americani che recitano in inglese, location ricostruire in Ungheria...) con al centro un ragazzino di otto anni, Bruno, figlio di un ufficiale nazista. Osservando le cose "ad altezza di bambino", veniamo introdotti nella vicenda. Bruno apprende che, assieme alla famiglia, dovrà trasferirsi da Berlino in una località di campagna, lasciando gli amati compagni di giochi. Confinato in una villa presidiata da militari, Bruno si annoia; finché non scopre l' esistenza, nei paraggi, di quella che lui ritiene una fattoria, popolata da strana gente con indosso pigiami a righe; in realtà, un campo di sterminio. Passando sopra qualche assurdità (la prossimità al campo del villone), il racconto si fa coinvolgente; soprattutto quando il piccolo protagonista fa conoscenza con Shmuel, un coetaneo ebreo "in pigiama" recluso dal filo spinato. I due cominciano a giocare e, pur nell' orrore della situazione, riescono ad affabulare la realtà per renderla meno dura; come solo i bambini sono capaci di fare. Se il ragazzino ebreo nasconde a se stesso una parte della verità, Bruno non riesce neppure a concepirla: tutto per lui diventa uno strano gioco; estremamente pericoloso, quando decide di entrare nel lager con un percorso opposto a quello dei detenuti: intrufolandosi sotto la recinzione. Benché il film sia articolato in un progressivo emergere in "campo" (visivo) di realtà che la famiglia vuole celargli, l' ingenuità e l' innocenza di Bruno (Asa Butterfield, piccolo attore inglese dagli occhi azzurri che gli mangiano il viso) non appaiono mai eccessive o assurde; e il regista-sceneggiatore Mark Herman ha l' accortezza di non pigiare sul pedale del patetico davanti a situazioni così intrinsecamente tragiche. I personaggi adulti risultano un po' schematici: più quelli maschili (il giovane ufficiale, il padre e il nonno di Bruno), tutti fanaticamente nazi, che i "caratteri" femminili (la nonna antinazista e la madre, che prima accetta poi capisce la vera entità dello sterminio). Gli "sguardi" più importanti sono il suo e, assai più, quello di Bruno. Il che tende a produrre identificazione nello spettatore minorenne; in un film che non è affatto da sconsigliare ai bambini (tutt' altro), ma la cui visione dovrebbe essere introdotta e accompagnata dall' adeguato commento di un adulto. |
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Boris Sollazzo - Da
Liberazione, 19 dicembre 2008
Dopo più di 60 anni dal più grande
e sistematico genocidio compiuto nell'età moderna, con sistemi
industriali ed economia di scala, è difficile dire qualcosa di nuovo
sull'Olocausto. Lo avevamo notato con Il falsario , bel noir ambientato
in un campo di concentramento, e in fondo ce lo aveva insegnato già
Primo Levi con Se questo è un uomo : per entrare nelle menti e nella
pancia delle persone serve una storia, meglio se di genere, pur
raccontando vicende vere e accadute. E così Mark Herman ha raccolto la
lezione di questo rinnovamento, di fatto attuatosi con il Train de vie
di Radu Milheanu a cui seguì La vita è bella di Benigni, e ha portato
sullo schermo il lager come non l'avevamo mai visto. Ad altezza di
bambino - e infatti non vediamo tetti e ciminiere, ma solo fumo da
lontano e terra e uniformi da vicino -, quella del figlio del comandante
tedesco che sovrintende alla struttura di sterminio e del piccolo di
otto anni con cui fa amicizia, al di là di una rete elettrificata e del
filo spinato. Diventano amici e la tragedia più grande della Storia
trova una dolcezza inenarrabile nel loro giocare a dama, nel sorridere
del bimbo tedesco ingenuo che approfitta del fatto che il compagno di
giochi non può manovrare le pedine per tentare di ingannarlo. Si sorride
con il cuore stretto, perché c'è troppo peso in quegli occhi innocenti.
Asa Butterfield cerca risposte sul perché, nella fattoria vicina alla
sua nuova casa, tutti portino questo pigiama a righe così poco elegante.
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Francesco Alò - Da
Il Messaggero, 19 dicembre 2008
La vita non è bella. E' il sospetto odioso che si insinua nella testa del piccolo Bruno (Asa Butterfielde), un bambino tedesco che incontra ogni giorno Shmuel, un altro ragazzino della sua età che veste un pigiama a righe. Come tutti quegli strani signori che lui vede dalla finestra della fattoria dove si è trasferito con mamma e papà. Tra lui e loro, un alto filo spinato. Chissà perché. Bruno ha capito poco di quel repentino trasferimento da Berlino. Gli è sfuggito il senso del nuovo incarico del padre. Ciò che lo turba di più, comunque, è il ricordo dello sdegno della nonna nei confronti di quella missione in campagna. Perché tanta tensione in famiglia? Presto tutte le sue domande avranno delle risposte. Orribili. Il bambino con il pigiama a righe di Mark Harman, tratto dal best-seller firmato John Boyne, affronta il tema dell'olocausto dal punto di vista di un bambino di otto anni. E' impressionante vedere Bruno viaggiare dall'innocente noncuranza (non vuole lasciare Berlino per non perdere gli amici), allo stupore quasi divertito, fino al senso di colpa lancinante. Accanto a lui si materializzerà mano a mano la presenza di una madre (Vera Farmiga) altrettanto ignara di ciò che accade in quella fattoria. Mai ricattatorio e mai banale, il film al massimo è leggermente inverosimile quando esagera negli incontri tra Bruno e Schmuel al filo spinato. Strano che nessuna sentinella se ne accorga. A parte ciò, la prova del piccolo Asa Butterfielde della grande Vera Farmiga sono indimenticabili. Come la tragedia che leggiamo nei loro occhi. |
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Marzia Gandolfi - da
www.mymovies.it
Berlino, anni Quaranta. Bruno è un
bambino di otto anni con larghi occhi chiari e una passione sconfinata
per l'avventura, che divora nei suoi romanzi e condivide coi compagni di
scuola. Il padre di Bruno, ufficiale nazista, viene promosso e
trasferito con la famiglia in campagna. La nuova residenza è ubicata a
poca distanza da un campo di concentramento in cui si pratica
l'eliminazione sistematica degli ebrei. Bruno, costretto ad una noiosa e
solitaria cattività dentro il giardino della villa, trova una via di
fuga per esplorare il territorio. Oltre il bosco e al di là di una
barriera di filo spinato elettrificato incontra Shmuel, un bambino ebreo
affamato di cibo e di affetto. Sfidando l'autorità materna e l'odio
insensato indotto dal padre e dal suo tutore, Bruno intenderà (soltanto)
il suo cuore e supererà le recinzioni razziali. |
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Gaetano Vallini, 'L'Osservatore Romano', 17
dicembre 2008 Papà non è un orribile mostro, non è vero? È un brav'uomo. Però comanda un posto orribile". Il dubbio che assale il piccolo Bruno, otto anni, figlio di un ufficiale nazista inviato a comandare un campo di sterminio, è il filo conduttore del film Il bambino con il pigiama a righe, dal 19 dicembre nelle sale italiane. È il dubbio del non detto, del sottinteso, di una realtà in cui ciò che è mendacemente taciuto viene visto di riflesso attraverso lo sguardo di un'innocenza che si scopre tradita. Ma quello diretto da Mark Herman, che lo ha tratto dall'omonimo romanzo di John Boyne, è soprattutto un film sull'amicizia: quella che lega Bruno a un suo coetaneo, Shmuel, che si trova dall'altra parte del filo spinato, segnato dal destino terribile del suo popolo, ma anch'egli in parte ignaro degli eventi che lo coinvolgono. (...) Detto questo, nel film - prodotto dalla Miramax e distribuito dalla Disney - ci sono diverse incongruenze, sia dal punto di vista della ricostruzione storica - che possono essere valutate come irrilevanti visto l'intento non documentaristico - sia, e soprattutto, nella natura dei personaggi. (...) Ciononostante, il film ci mostra un punto di vista inconsueto - non quello di una vittima della Shoah ma di un bambino tedesco - e centra in qualche modo il bersaglio: riuscire a dare il senso del conflitto interiore del piccolo Bruno, vittima anch'egli, sia pure in modo diverso, stretto tra quell'amicizia e i comportamenti imposti dalla famiglia ("Noi non dovremmo essere amici, tu e io. Lo sapevi?", dice a un certo punto a Shmuel). Con tutti i limiti della sceneggiatura, la vicenda può essere letta come il paradigma di quella "banalità del male" definito da Hannah Arendt, secondo il quale anche persone comuni possono venire sopraffatte dalla barbarie in nome di un'obbedienza cieca a un'autorità che non viene mai posta in discussione. La sospensione del giudizio morale, ovvero l'assenza di consapevolezza della gravità della colpa, è la disarmante dimostrazione di quella mediocrità intellettuale a essa sottesa che rende anche uomini normali, cioè né sadici né perversi, capaci di azioni mostruose. Cinematograficamente non siamo certo ai livelli narrativi e poetici di "La vita è bella" di Roberto Benigni, ma non mancano punti di contatto. Nel film vincitore dell'Oscar s'impone lo sforzo di un padre per difendere il figlio dal vortice di orrore nel quale sono stati precipitati. Lì la menzogna è il meccanismo di difesa scelto per preservare l'innocenza di una ignara vittima. In "Il bambino con il pigiama a righe" è il modo usato dagli adulti per difendere prima di tutto se stessi dal senso di colpa. |
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