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i
film
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Titolo del
film: I DEMONI DI SAN PIETROBURGO (I demoni
di San Pietroburgo)
Regia:
Giuliano Montaldo
Soggetto:
Paolo Serbandini da un'idea originale di Andrei Konchalovsky
Sceneggiatura:
Paolo Serbandini, Monica Zapelli, Giuliano Montaldo
Fotografia:
Arnaldo Catinari
Musiche: Ennio
Morricone
Interpreti:
Miki Manojlovic (Dostojevskij), Carolina Crescentini
(Anna), Roberto Herlitzka (Pavlovic), Anita Caprioli (Aleksandra),
Filippo Timi (Gusiev), Patrizia Sacchi (Advotja), Sandra Ceccarelli
(Natalia Ivanovna), Giovanni Martorana (Trifonov), Giordano De Plano (Dostojevskij
da giovane), Emilio De Marchi (Gazin), Enzo Saturni (Giovane Dottore),
Carlo Colombo (Stellowsky), Stefano Saccotelli (Servitore di Stellowsky),
Giancarlo Judica Cordiglia (Durov), Steve Della Casa (V° giudice
militare), Francesco Marino (Segretario di Pavlovic), Cristina Aceto
(Ragazzina nuda), Danny Berger (II° giudice militare), Marco Gandini
(sarto), Federico Zaimbra (Venditore ambulante)
Genere, durata e
nazionalità:Drammatico-storico, 118', Italia |
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Note di regia
Lessi il progetto su Fjodor Dostojevskij qualche anno fa. Un racconto
affascinante ideato da Andrei Konchalovsky e scritto da Paolo Serbandini.
È davvero trascorso molto tempo ma le sequenze che avevo letto
continuavo a rivederle e diventavano immagini con colori, ambienti,
costumi, volti, luci... È difficile, ma nello stesso tempo
entusiasmante, entrare nel mondo di un grande scrittore come Fjodor
Mikhajlovic Dostojevskij, rivivere le sue passioni, la malattia, la
febbre del gioco; rileggere le pagine che lui ha scritto di getto, senza
una correzione, perché doveva consegnare il lavoro presto, subito, per
placare i tanti creditori. La vita, le sofferenze, le passioni di questo
grande autore sono - forse - il suo romanzo più forte e coinvolgente. Ho
affrontato questa difficile impresa sperando che dopo la visione di
questo film cresca il desiderio di conoscere ancora di più questo grande
personaggio. Quello che mi ha affascinato, e che negli anni ha lavorato
in profondità dentro di me, è l’idea di poter raccontare il dubbio, di
poter osservare un grande scrittore affrontare il demone della sua
coscienza nel timore di essere stato il cattivo maestro per le nuove
generazioni. Di cogliere l’attimo in cui Dostojevskij dopo la terribile
esperienza della detenzione in Siberia, nel contatto con la sofferenza
vera e con quella umanità disperata, fa il bilancio del suo impegno
rivoluzionario. E capisce che ormai è interessato a cercare una sola
cosa: l’Uomo. (Giuliano
Montaldo) |
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Rassegna Stampa |
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Alessandra De Luca -
Ciak, maggio 2008
Dopo l'attentato a un membro della famiglia imperiale nella San
Pietroburgo del 1860, Fëodor Dostoevskij apprende dì un piano per
eliminare un altro parente dello Zar. Deciso a fermare il nuovo atto
terroristico lo scrittore, pressato da attacchi di epilessia, editori e
creditori, lavora giorno e notte con una giovane stenografa alla stesura
de Il giocatore. Il ritratto di un autore la cui vita è stata
appassionante tanto quanto i suoi romanzi. Montaldo riflette con
passione su intolleranza, fanatismi e cattivi maestri rievocando i
demoni della coscienza di un uomo diviso tra impegno rivoluzionario e
dubbio, tormentato dal passato e dal desiderio di raggiungere il cuore
del mistero umano. |
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Claudio Carabba - Corriere della Sera Magazine», 8 Maggio 2008
La notizia è buona. Dopo anni di
calma piatta, il cinema italiano riscopre il fascino aspro del racconto
politico. A Cannes sfileranno in concorso Gomorra di Matteo Garrone (dal
duro libro di Saviano) e II divo, in cui Paolo Sorrentino affronta
l'avventurosa vita di Giulio Andreotti. In questo quadro inquieto va
inserito il robusto racconto di Giuliano Montaldo che immagina gli
affannati giorni in cui Dostoevskij scrisse li giocatore. Più che al
mistero dell'arte, il regista è interessato alla possibile influenza dei
vecchi intellettuali sulle nuove generazioni, ovvero al rapporto fra le
parole e la lotta sovversiva. Il nodo che lega 'il Maestro e i
terroristi" non è ben risolto e lo stile tende al teleromanzo. Ma resta
all'attivo la voglia di rischiare usando il passato per capire il
presente. |
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Andrea Giorgi - Film Tv
Ruggisce ancora il vecchio leone Montaldo (classe, autentica, 1930),
tornato al cinema tanto, troppo tempo dopo l’irrisolto Tempo di
uccidere. Per farlo ha scelto di recuperare un progetto su
Dostoevskij, vita e opere, da un’idea di Andrej Konchalovskij poi messa
su carta da Paolo Serbandini e rimasta nel cassetto tanti, troppi anni.
Non una biografia sul personaggio ma quasi un omaggio, con sfarzo e con
gusto, alle sue passioni, rincorso dai debiti di gioco e dal caos per
nulla calmo della coscienza di ex cattivo maestro. C’è da buttare giù
l’ultimo capitolo e bisogna fermare il sangue dei rivoluzionari che
preparano le bombe. Passioni che sono anche quelle del regista, la
libertà di pensiero contro tutti i terrorismi, di ieri e di oggi.
«Vorrei far tornare la voglia di leggere i suoi libri»: missione
compiuta. Cinema didattico ma non scolastico, rispettoso, credibile. La
prigionia in Siberia, la malattia, l’amore per la giovane stenografa che
lo aiuta a scrivere d’impeto. E anche i palazzi del potere, filmati tra
San Pietroburgo e Torino, sfruttando le affinità architettoniche e la
potenza produttiva della Film Commission. Le carrozze, gli effetti
speciali, i costumi. Persino il nostro Steve Della Casa figurante
parlante (doppiato). Miki Manojlovic, da Kusturica, ha lo sguardo
sofferto e profondo dello scrittore. La Crescentini fa esercizio di
misura. |
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Paul Bompard - Internazionale, 2 maggio
2008
Nella gelida San Pietroburgo del
1860, Dostoevskij viene informato di un complotto rivoluzionario per
assassinare tutta la famiglia dello zar. Tra tormenti esistenziali,
allucinazioni, atroci dubbi, angosce e qualche attacco epilettico, lo
scrittore si aggira tra case aristocratiche, uffici della polizia
segreta, gruppi di studenti rivoluzionari e terrificanti bassifondi, nel
tentativo di evitare l'assassinio di un granduca. Il film è girato con
grandissima cura, in un'atmosfera molto teatrale, con una malinconia
tipicamente russa, cupa e opprimente. I lunghi dialoghi sul senso della
vita, sugli ideali politici e umani contrapposti alle esigenze della
realtà sono inframmezzati con flashback dei dieci anni che Dostoevskij
ha passato come detenuto politico in Siberia, dove ha conosciuto "il
popolo" e ha capito che dei sogni libertari degli studenti non gliene
importa niente. Un film a tinte forti, con grande attenzione all'impatto
visivo, alla composizione delle inquadrature, pieno di metafore, simboli
e messaggi filosofici e psicologici. Eccessivamente didattico e prodigo
di profondi significati, senza il sollievo di momenti leggeri e
scorrevoli, il film è abbastanza faticoso da vedere. |
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Boris Sollazzo -
DNews, 28 aprile 2008
Nella scuola della politica
rivoluzionaria esistono i cattivi maestri e i cattivi alunni? E di chi è
la colpa di violenza, bombe, rappresaglie? È nata prima la gallina della
teoria della rivolta o l'uovo della prassi della lotta armata? Giuliano
Montaldo se lo chiede, raffinato conoscitore di terrorismi,
(anti)governativi o ecclesiastici (da Sacco e Vanzetti a Giordano
Bruno), attraverso uno dei più grandi pensatori della letteratura russa,
Fëdor Michajlovic Dostoevskij. Ne racconta, immaginandoli dopo averne
studiato e amato la biografia, cinque giorni cruciali, una scadenza
privata e una pubblica che rischiano di annientarlo. Deve consegnare un
libro al suo editore-strozzino che vuole approfittare del suo vizio per
il gioco per imporgli un contratto capestro vita natural durante, deve
evitare un attentato che nasce dalle sue parole e dai suoi ideali
giovanili, dal suo socialismo eversivo e antizarista senza se e senza
ma. Montaldo scrive della Russia di più di un secolo fa, ma pensa ai
nostri anni '70. Lo scrittore (Miki Manojlovic), imbeccato da un
"pentito" (Filippo Timi, truccato malamente), si sdoppia, proprio come
un personaggio dostoevskijano. Scrive il libro con una dedita stenografa
(Carolina Crescentini), combatterà le ombre del passato contro la
giovane e appassionata rivoluzionaria ispirata dalle sue parole (Anita
Caprioli). Un romanzo storico e d'appendice insieme, ambizioso e antico.
Troppo. La forma non si fa sostanza, tutto è freddo, macchinoso e
prevedibile e un doppiaggio improbabile fa il resto. Il regista non
perde la sua mano magica con gli attori (e, soprattutto, le attrici), ma
la zampata decisiva, all'anima e alla carne, non arriva mai. |
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Alessio Guzzano -
City, 30 aprile 2008
Giuliano Montaldo, classe 1930, ex
attore, già braccio destro (alla macchina da presa) di Pontecorvo,
regista di "Sacco e Vanzetti" e "Giordano Bruno", realizzò un "Marco
Polo" (1980) che è tuttora al top delle biografie tv. Dopo quasi 20 anni
di esilio nell'opera lirica, attinge a vita e opera di Dostoevskij,
miscelandole in ambienti da kolossal, ma preferendo spendere in parole,
recitazioni e morale. Indebitato e costretto dall'editore a dettare in
pochi giorni "Il giocatore" alla futura moglie (Crescentini), lo
scrittore (Miki Manojlovic, che viene da Kusturica e da Irina Palm) è
spinto dalla confessione di un finto pazzo (Timi) a bloccare i giovani
demoni (tra i quali la Caprioli) che preparano un attentato antizarista.
Lo tormentano: ricordi di asce, esecuzioni e aquile siberiane. E un
ottocentesco dubbio russo, italianissimo e recente: è stato un cattivo
maestro? Delitti e castighi, vittime e castigatori per destino (Herlitzka,
eccelso), attimi febbrili nell'oceano di nobili ombre e retorica. Nulla
a che vedere con le bolse cinefiction dei Taviani, ma manca all'affresco
uno scatto dinamico per ergersi all'antico rango di sceneggiato tv. Che
per alcuni è insulto. Invece è l'unico (ultimo?) possibile capolavoro
didattico.
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Roberto Escobar - Da Il Sole-24 ore, 5 maggio
2008 Non sono
dèmoni, ma demòni, quelli che Fëdor Michajlovic Dostoevskij racconta in
Besy (I demoni), pubblicato fra il 1871 e il 1872. È demoniaca in
senso stretto la loro certezza d'aver diritto d'uccidere. In fondo, sono
i primi fra i molti che nel Novecento professeranno, e praticheranno, il
diritto di sopprimere individui e masse in nome di una visione del mondo
totale, certi della propria innocenza storica. E "assassini innocenti"
demoniaci sono quelli che si trova ad affrontare lo stesso Dostoevskij,
così come è immaginato da Giuliano Montaldo in I demoni di San
Pietroburgo (Italia, 2008, 118').
Ispirato aun'idea di Andrej Koncalovskij, e scritto dallo stesso
Montaldo con Paolo Serbandini e Monica Zapelli, il film racconta 5 o 6
giorni nella vita del grande russo. È il 1866, e Dostoevskij (Miki
Manojlovic) sta scrivendo Il giocatore.
Riceve però un messaggio da Gusiev (Filippo Timi), un terrorista pentito
che si finge pazzo, e che s'è fatto ricoverare in manicomio per sfuggire
sia alla polizia sia ai suoi compagni. Quando lo incontra, lo scrittore
vede in lui un'immagine di se stesso, così com'era tanti anni prima.
In una serie di flashback, appunto, la sceneggiatura ricorda la sua
vicenda giovanile. Vicino a circoli radicali e pro-gressisti, nel 1849
era stato arrestato e condannato a morte. Condotto davanti al plotone
d'esecuzione, all'ultimo momento gli era stata comunicata la grazia, ed
era poi stato mandato per 4 anni ai lavori forzati in Siberia. Ora, 6
anni dopo esser tornato a San Pietroburgo, il suo passato riemerge
interrogandolo, e turbandolo. E lui lo vorrebbe allontanare,
rifiutandone anche la memoria. Così – in una sequenza segnata da una
recitazione tanto estrema da rischiare d'essere imbarazzante –, l'antico
ribelle si scaglia urlando contro il suo giovane emulo, quasi per
cancellarne la stessa "presenza". In ogni caso, l'incontro lo segna.
Quello che Gusiev gli rivela potrebbe salvare la vita di un membro della
famiglia reale, ma al prezzo d'una delazione alla polizia, e in primo
luogo al suo capo Pavlovic (Roberto Herlitzka). Tuttavia, per quanto
rifiuti per principio la legittimità dell'assassinio politico, in lui
continuano a vivere forti tracce del passato. In fondo, una parte di
Gusiev e dei suoi compagni gli sopravvive dentro, e ancora gli chiede di
tener fede all'antico impegno.
Questo è dunque il tema centrale del film: c'è un rapporto, e quale, fra
la scelta di prender posizione a favore della giustizia sociale e la
decisione di agire per così dire in coerenza estrema, ossia fino
all'atto del dare la morte, se necessario? Il Dostoevskij storico
risponde alla domanda con tutta la sua opera, soprattutto con quella
degli ultimi anni. Per lui, appunto, la via d'uscita sta in una
prospettiva religiosa, in un'adesione per così dire reazionaria ( ma
profondissima, e alla fine grandissima) a valori lontani dai suoi degli
anni giovanili. Nel Dostoevskij di Montaldo, invece, questa dimensione
religiosa è tenuta molto in secondo piano. Quel che spicca, al
contrario, è proprio la tragicità d'una coscienza divisa fra volontà di
impegno e rifiuto d'ogni violenza. Insomma, quello che spicca è molto
più dentro i nostri anni recenti, e dentro l'esperienza delle ideologie,
che dentro l'opera di Dostoevskij.
È certo generoso, quel che si propone I demoni di San Pietroburgo.
In un cinema come quello italiano, in cui per lo più si rifugge da temi
tanto gravi, e tanto scomodi, Montaldo e i suoi collaboratori decidono
di correre i loro rischi. È un po' come se essi stessi fossero
altrettanti (piccoli) Dostoevskij, impegnati a esplorare il confine
ambiguo che separa la giustizia dalla prevaricazione, la libertà dal
fanatismo, e alla fine le ragioni della vita dalla prepotenza della
morte. Ma tutto questo fanno con mezzi espressivi troppo spesso
inadeguati.
È più televisivo che cinematografico, il loro film. Lo è nell'impianto
narrativo preoccupato di tutto spiegare, e di tutto ridurre a scontri
fra caratteri psicologici immediatamente riconoscibili, immediatamente
traducibili in idee schematiche, "consumabili" da spettatori appunto
casalinghi. E lo è anche nella scrittura di alcuni passaggi che
dovrebbero essere decisivi. Uno spicca su tutti: quello in cui
Dostoevskij segue la ribelle Aleksandra (Anita Caprioli) nella sua fuga
sui tetti. Non solo la situazione è tanto irrealistica quanto forzata,
ma per di più un complice della donna si porta sulle spalle una cassa di
bombe a mano: particolare che, purtroppo, risulta più comico che
tragico. Insomma, dèmoni o demòni che siano, quelli raccontati da
Montaldo avrebbero meritato più cinema. |
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Lietta Tornabuoni - La Stampa, 25
aprile 2008 Nel 1860, a
San Pietroburgo, cinque giorni d'affanno, spavento e insicurezza nella
vita del grande scrittore russo Fjodor Dostojevskij, raccontati (da
un'idea di Andrei Konchalovsky) da Paolo Serbandini e diretti da
Giuliano Montaldo per far conoscere meglio il personaggio, riflettere
sul ruolo degli intellettuali nella collettività, sul terrorismo e la
violenza politici, sul male e la libertà, su Dio.
Dostojevskij aveva 39 anni. Era malato di epilessia sin dall'infanzia;
la malattia s'era aggravata negli anni di detenzione «per le sue idee
socialiste» nel penitenziario di Omsk e al confino in Siberia; aveva già
pubblicato il sosia, Le notti bianche, Il villaggio di Stepàncikocov e
diretto riviste politico-culturali. Il film lo vede assediato da molti
guai: avvicinato da un terrorista viene a sapere d'un attentato in
preparazione contro lo zar e la sua famiglia e sente il dovere di
evitarlo; in gran fretta deve dettare a una stenografa e consegnare il
romanzo il giocatore, per via d'un contratto strangolatorio; si sente
male; teme «d'essere stato un cattivo maestro per le nuove generazioni»,
è posseduto dal dubbio facendo «il bilancio del suo impegno
rivoluzionario».
Ci sarà magari qualche imprecisione. Il giocatore usci sei anni dopo,
nel 1866. La stenografa Anna Grigorievna Smitkina a pochi mesi
dall'incontro divenne moglie di Dostojevskij nel 1867. Il tormento
all'idea di «essere stato un cattivo maestro» parrebbe precipitoso: nel
1860 non erano ancora usciti Delitto e castigo (1866), Memorie dal
sottosuolo (1864), L'idiota (1868), I demoni (1871). Dostojevskij
quarantenne era bello, come si vede nelle fotografie d'epoca o nel
ritratto di Trutovskij conservato a Mosca al museo dello scrittore: il
bravo protagonista Manojlovic, gonfio, sulfureo, non coordinato, neppure
lo ricorda.
Non ha alcuna importanza. Giuliano Montaldo è tornato alla regia di film
dopo 17 anni di assenza, per raccontare questa storia che non ha nulla a
che vedere con le biografie convenzionali: febbrile, nervosa,
interiorizzata, è invece la vicenda viva d'un uomo straordinario. I
demoni di San Pietroburgo ha valori produttivi impeccabili, è fatto
benissimo, intensamente: persino il legame tra il presente e le schegge
di passato in bianconero è fluido, naturale. |
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Gian Luigi Rondi - Da Il Tempo, 26 aprile 2008
Giuliano Montaldo, uno dei nostri
autori di più sicuro prestigio, torna al cinema dopo essersi dedicato
per quasi vent'anni a felici imprese televisive ("Marco Polo") e a
preziose messinscene sui palcoscenici della lirica ("Turandot" a
Verona), ("II Trovatore" a Firenze). Adesso, fedele ai civili impegni
dei suoi film maggiori ("Sacco e Vanzetti", "Giordano Bruno"), affronta,
ispirandosi a un'idea di Andrej Konchalowskij, un personaggio fra i più
celebrati (e problematici della letteratura russa, Fjodor Dostoevskij,
mettendolo al centro di una crisi che, pur solo immaginata, prende
abilmente a supporto molti temi. e molti elementi tolti con rigorosa
fedeltà dalla sua biografia. Tra questi, i suoi debiti di gioco, la sua
necessità di completare in tempi brevi un suo romanzo ("Il giocatore")
per non venir meno a un contratto con un editore esoso, il suo passato
di rivoluzionario che gli era costata una deportazione in Siberia,
l'epilessia, il suo primo incontro con quella sua stenografa, Anna
Gilgorjevna, destinata a diventare la sua seconda moglie.
In parallelo, attentamente inserita, la crisi. Motivata dal dilemma, di
fronte ai moti rivoluzionari che nel 1860 turbavano la Russia, di
esserne stato in qualche modo responsabile con i suoi romanzi sempre
ferventi sostenitori della libertà e adesso presi ad esempio proprio da
quei giovani che, fraintendendoli, ne traevano incitamento per
allentati, spargimenti di sangue, bombe. Eccolo, così, cercare di
avvicinare quei giovani, di frenarli, di convincerli, anche, ad evitare
il peggio, denunciando alla polizia certi loro piani cui avrebbe fatto
seguito solo la morte. Anche per molti innocenti.
Un grande, tormentato personaggio. Una perorazione civilissima contro il
terrorismo (di ieri e di oggi), una attenta rievocazione di un'epoca,
una suggestiva ricostruzione di una cornice (nella autentica San
Pietroburgo), una struttura narrativa che dosa con sapienza l'alternarsi
di ogni singolo personaggio, dei suoi contrasti, dei suoi drammi.
Affidati, a modi di rappresentazione che, valendosi di tecniche
saldissime (le scenografie di Francesco Frigeri, i costumi di Elisabetta
Montaldo, la fotografia di Arnaldo Catinari, le musiche di Ennio
Morricone) arrivano a propone uno spettacolo il cui larghissimo respiro
si accompagna, senza squilibri, allo studio puntuale del tormentato
protagonista. Lo ricrea con vigore, lo slavo Miki Manojlovic, visto di
recente in "Irma Palm". Gli altri, tutti egualmente validi, sono
Carolina Crescentini, la futura moglie, Roberto Herlitzka, un
poliziotto, Anita Caprioli, una rivoluzionaria. |
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