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    Titolo del film: CHE - L'ARGENTINO (The argentine)

Regia: Steven Soderbergh

Soggetto: Ernesto Che  Guevara (memorie)

Fotografia: Steven Soderbergh (Peter Andrews)

Musica: Alberto Iglesias

Interpreti: Benicio Del Toro (Ernesto 'Che' Guevara de la Serna), Demian Bichir (Fidel Castro), Santiago Cabrera (Camillo Cienfuegos), Elvira Mínguez (Celia Sanchez), Jorge  Perugorría (Joaquin), Edgar Ramirez (Ciro Rondon), Victor Rasuk (Rogelio Acevedo), Armando Riesco (Benigno), Catalina Sandino Moreno (Aleida Guevara), Rodrigo Santoro (Raul Castro), Unax Ugalde (Piccolo Cowboy), Yul Vázquez (Alejandro Ramirez).

Genere, durata e nazionalità: Biografico/Drammatico/Storico, 131', Usa/Francia/Spagna

   
         
       Trama

   Cuba, anni '50.

   Il Generale Fulgencio Batista mette in atto un colpo di stato, assume il controllo della presidenza e sospende le libere elezioni ma un giovane avvocato, Fidel Castro, incita il popolo alla rivolta.

   Il 26 novembre del 1956 Fidel Castro salpa per Cuba con 80 ribelli.

   Al suo fianco ci sarà anche un medico argentino, Ernesto 'Che' Guevara, destinato a diventare un eroe rivoluzionario, beniamino dei suoi compagni e del popolo cubano.

   Che – L’Argentino racconta l’ascesa del Che nella rivoluzione cubana, da medico a comandante, a eroe rivoluzionario.

   
         
      PREMIO COME MIGLIOR INTERPRETE MASCHILE A BENICIO DEL TORO AL 61mo FESTIVAL DI CANNES (2008)    
         
   

   IL CONTESTO STORICO

   Nel 1952, il Generale Fulgencio Batista architetta un colpo di stato a Cuba, assume il controllo della presidenza e sospende le libere elezioni. Nonostante la sua dittatura corrotta sia sostenuta da un esercito di quarantamila uomini, un giovane avvocato di nome Fidel Castro incita il popolo alla ribellione attaccando la base militare Moncada, il 26 luglio del 1953. L’attacco fallisce e Castro trascorre due anni in prigione prima di venire esiliato in Messico.

   Nel frattempo, un giovane idealista argentino di nome Ernesto Guevara ha cominciato a fare attività politica in Guatemala. Nel 1954, quando il governo di Jacobo Árbenz, liberamente eletto, viene rovesciato nel corso di un’operazione militare organizzata dalla CIA, Guevara fugge in Messico dove, grazie ad alcuni contatti presi in Guatemala, raggiunge un gruppo di esiliati cubani.

   Il 13 luglio 1955 segna un evento privato ma determinante nella storia della rivoluzione cubana: in un modesto appartamento di Città del Messico, Guevara viene presentato al fratello minore di Fidel, Raul. Guevara si arruola immediatamente in una operazione di guerriglia per rovesciare il dittatore cubano. I cubani ribattezzano il giovane ribelle “Che”, un appellativo molto popolare in Argentina.

   Il 26 novembre 1956, Fidel Castro salpa per Cuba con 80 ribelli – solo 12 di loro sopravviveranno. Uno di loro è il Che, che si è unito al gruppo come medico di bordo. Il Che impara presto l’arte della guerra di guerriglia e si rivela indispensabile come combattente, diventando il beniamino dei suoi compagni e del popolo cubano.

   Che – L’Argentino racconta l’ascesa del Che nella rivoluzione cubana, da medico a comandante, a eroe rivoluzionario.

   A PROPOSITO DEL FILM

   “A quarant’anni dalla sua morte, sono molte le ragioni per cui il Che resta un simbolo di grande forza ancora oggi” - spiega Laura Bickford, una delle produttrici del film di Steven Soderbergh Che – L’Argentino. “Incarna l’immagine della ribellione giovanile e dell’idealismo – due cose che, secondo me, non hanno età, sono eterne. Non ci interessa l’attuale politica cubana. Siamo cineasti e vogliamo solo fare un film su un particolare periodo storico visto attraverso gli occhi del Che.”

   “Abbiamo parlato con i protagonisti di tutte le parti coinvolte e condensato i risultati delle nostre ricerche nella sceneggiatura. Non riusciremo mai ad accontentare tutti – è impossibile ricostruire con esattezza ogni dettaglio. Ci abbiamo messo tre anni per documentarci sulle vicende che sono diventate Che – Guerriglia. All’inizio, volevamo raccontare in modo dettagliato una sola parte della vita del Che. Ma poi abbiamo scoperto che senza realizzare anche Che – Guerriglia non saremmo riusciti a spiegare il contesto in cui era nata la decisione del Che di andare in Bolivia.”

   “Quando abbiamo deciso di aggiungere le parti su Cuba e New York, e ci siamo messi a lavorare sulla struttura del film, il progetto ha cominciato ad allargarsi sempre di più. A quel punto, ci siamo resi conto che di film dovevamo farne due.”

   “Quando Benicio ed io abbiamo iniziato a interessarci al Che e a incontrare diversi sceneggiatori, ci è stato fatto il nome di Peter Buchman, che aveva scritto ALEXANDER. Peter ha passato un anno a leggersi tutti i libri sull’argomento. Poi, però,  io ho dovuto mettermi a lavorare alla produzione di “TRAFFIC” e le nostre strade si sono divise per un paio d’anni. Quando siamo tornati a lavorare al progetto, Steven [Soderbergh] aveva già accettato di dirigere il film. E’ Steven che ha voluto includere anche Cuba e New York, oltre alla parte sulla Bolivia.”

   “Una delle maggiori difficoltà che hanno incontrato Steven e Benicio nella sceneggiatura è stato mettere insieme tutte le informazioni e le storie che avevamo raccolto”, prosegue la Bickford. “Riuscire a condensarli e al tempo stesso a raccontare una storia avvincente è stato estremamente impegnativo.”

   “Ce n’erano tanti di sceneggiatori pronti ad aiutare Steven a realizzare questo progetto, ma ci avrebbero messo almeno un anno per prepararsi e mettersi a scrivere. A quel punto, mi ha chiamato Peter per ricordarmi che lui aveva già fatto tutte le ricerche. Ho ringraziato il cielo! E’ stato eccezionale, ci ha dato un aiuto prezioso per costruire la struttura del film.”

   Ricorda Buchman: “Circa cinque anni dopo aver finito le ricerche, ho chiamato Laura per dirle che se avevano bisogno di uno sceneggiatore pronto a sedersi con Steven in una stanza per mettere tutto nero su bianco, io sarei stato felice di farmi usare come cassa di risonanza. Questo accadeva due anni e mezzo fa. Sono volato a New York e ho incontrato lui e Benicio. Fondamentalmente, l’idea di realizzare solo il film sulla vicenda boliviana non mi convinceva perché pensavo che lo spettatore si sarebbe trovato di fronte al finale tragico di una storia di cui avrebbe voluto sapere di più - senza conoscere quello che era successo prima, era difficile farsi coinvolgere.”

   “Sono tornato a casa e mi sono messo a scrivere un’unica sceneggiatura con tre diverse tracce narrative: la vita del Che e la rivoluzione cubana, la sua caduta e, tra le due, il viaggio a New York per il discorso alle Nazioni Unite.”

   “Io cerco sempre di essere fedele alla realtà storica, ma so che quando devi raccontare una vicenda così complessa in un unico film, alla fine sei costretto – per ragioni di tempo - a distorcere quella realtà. In questo caso, però, tutti noi sapevamo di maneggiare materiale molto delicato, perché c’erano ancora moltissime persone pronte a difendere con passione la propria versione dei fatti.”

   “Steven era convinto che un’unica sceneggiatura non avrebbe reso giustizia a ognuna delle tracce principali, e ha proposto l’idea dei due film. Poiché il palazzo delle Nazioni Unite stava per essere sottoposto a una radicale ristrutturazione, abbiamo girato subito le scene del Che che parla di fronte all’Assemblea Generale, nel 1964. Laura si è girata verso di me e mi ha chiesto: ‘Non è un momento da festeggiare?’ E io le ho risposto: ‘Festeggerei volentieri, se non dovessi correre a casa a scrivere due sceneggiature!’”

   “Sono stato costretto a rivedere la struttura della parte cubana perché inizialmente ne avevo scritta una versione troppo condensata. Ho dovuto ripercorrere tutte le tappe della storia – un lavoro al quale hanno partecipato attivamente anche Steven, Benicio e Laura.”

   SETTE ANNI DI LAVORO DI RICERCA

   “Interpretare il Che è stata un’esperienza diversa da tutte le altre per me”,  dichiara il produttore e protagonista del film, Benicio Del Toro. “In questo caso, trattandosi di un personaggio realmente esistito, abbiamo dovuto partire dalla sua biografia e dagli scritti che aveva lasciato. Così, ci siamo imbarcati in sette anni di ricerche durante i quali abbiamo letto tutto quello che era stato scritto da lui e su di lui. Ma, essenzialmente, per interpretarlo ho cercato di basarmi soprattutto sulle cose scritte da lui.”

   “In questi sette anni” aggiunge la Bickford, “siamo stati a Cuba, in Bolivia, a Parigi e a Miami: ovunque andassimo, trovavamo qualcuno che aveva qualcosa da raccontarci. Il bello di girare un film sulla rivoluzione cubana è che c’è ancora tanta gente che la rivoluzione l’ha vissuta in prima persona, da una parte o dall’altra della barricata. Se giri un film sulla rivoluzione americana, francese o messicana – non hai la stessa fortuna.”

   “C’è molto materiale, molte foto. I ribelli hanno documentato con estrema cura la loro esperienza.”

   “Pombo, Urbano e Benigno sono tre uomini che hanno incontrato il Che durante la rivoluzione cubana e lo hanno seguito in Bolivia, riuscendo a sopravvivere. Compaiono tutti e tre sia nella prima che nella seconda Parte del film. Li abbiamo intervistati singolarmente, oppure insieme, per farci raccontare i fatti di Cuba e Bolivia. Urbano è stato anche nostro consulente in Spagna. La loro presenza ha trasmesso a noi e agli attori un senso della realtà dei fatti assolutamente unico. La verità è che si potrebbe fare un film su ognuno di loro - ognuno ha la sua storia.”

   “A loro, gli attori hanno chiesto informazioni molto specifiche, del tipo: come tenevano le pistole in quella situazione? Come si orientavano per spostarsi da un posto a un altro? Che tipo di formazione adottavano per procedere nella giungla? Insomma, informazioni tecniche molto specifiche. E questo ha dato una marcia in più al cast. Gli attori che interpretano questa parte della rivoluzione cubana e della vita del Che abbracciano l’intero spettro politico. In questo film è rappresentata ogni singola posizione politica sulla situazione cubana.”

   LE RIPRESE

   “Non credo che saremmo riusciti a girare questi due film, nonostante tutti i soldi che ci avevano dato, se non ci fosse stato lui [Soderbergh] a dirigerli. La velocità con cui abbiamo dovuto muoverci è stata ogni giorno una sfida impegnativa per gli attori e per la troupe” – dichiara la Bickford.

   Fin dall’inizio Soderbergh aveva deciso di usare solo la luce naturale. E poiché la maggior parte delle scene si svolgono in esterni, alla fine è stata usata solo qualche lampada ogni tanto.

   La produzione è riuscita a ottimizzare i tempi grazie all’uso di una nuova, innovativa cinepresa digitale, la RED. All’inizio, quando si sperava di poterla utilizzare, è arrivata la notizia che la camera non era ancora disponibile. “A quel punto, si è verificato un piccolo incidente provvidenziale”, ricorda la Bickford, “un ritardo nei nostri visti per la Spagna che ha bloccato me e Benicio a Los Angeles per una settimana. E proprio quella settimana l’azienda produttrice ha chiamato per dirci che il prototipo era pronto.”

   La RED è una cinepresa digitale ad alte prestazioni che offre la qualità di una pellicola 35 mm e la convenienza del digitale puro. Il corpo è stato progettato per esaltarne la flessibilità e la funzionalità. Estremamente maneggevole, pesa solo 4 chili e mezzo.

   “Girare con una RED è come ascoltare i Beatles per la prima volta”, dice Soderbergh. “La RED vede attraverso i miei occhi. Un giorno spero di scoprire come siano riusciti a creare uno strumento così tecnologicamente avanzato e al tempo stesso così compatto, così meravigliosamente conforme al più naturale dei fenomeni – la luce. Ma per ora sono solo contento di avere avuto la possibilità di usarla, perché ha reso unici questi due film.”

   
         
         
       Rassegna Stampa    
         
       Claudio Masenza - Da Il Venerdì di Repubblica, 3 aprile 2009

  Tanto c'è voluto a Steven Soderbergh (Traffic, Ocean's Eleven) per realizzare il suo film. Anzi, i suoi due film: Che. L'argentino in uscita ora e Che. Guerriglia, a maggio. Un'operazione politica? «No, l'ideologia mi interessa molto meno dell'uomo» racconta il regista. «Era uno che bisognava amare senza aspettarsi nulla in cambio».

   Il più eclettico degli autori cinematografici americani, Steven Soderbergh, per la prima volta affronta un mito: il rivoluzionario che ha dato speranza a generazioni di giovani per peri divenire un simbolo della cultura pop, non troppo dissimile dall'immagine della coca-cola: Ernesto Che Guevara.

   A vent'anni (fai successo di Sesso, bugie e videotapeche ne fece scoprire il talento di filmmaker indipendente, Soderbergh realizza il suo film più personale. Un'epopea di quattro ore e mezzo, che vedremo in due parti Che. L'argentino , sulla conquista di Cuba, in uscita il l'11 aprile in Italia, seguito, il primo maggio, da Che. Guerriglia, che racconta l'adesione di Guevara alla rivoluzione boliviana alla morte, avvenuta nel 1967, a 35 anni.

   Lasciatosi alle spalle la fortunata collaborazione con George Clooney che, da Out of Sight a Ocean's Eleven e i suoi due seguiti, ha rappresentato il volto più commerciale della sua carriera, Soderbergh torna alle asprezze di Traffic, esasperandone il taglio da cinema-verità. «L'idea non venuta a me» racconta. «Me l'ha proposta Benicio del Toro quando giravamo Traffic. Io ho detto subito sì. Non so perché. della vita di Che non sapevo niente. Ho pensato che sarebbe stata un'opportunità per imparare qualcosa, ma non immaginavo che per. riuscire a realizzare il film ci sarebbero voluti otto anni ».

Colpa delle riprese troppo lunghe?
«No. Per ognuno (lei due film abbiamo girato 39 giorni. È stato come restare ai blocchi di partenza otto anni per correre i cento metri».
Lei ha dichiarato che, se Guevara fosse vivo, probabilmente lo odierebbe. Eppure il suo lavoro è estremamente rispettoso.
«Giudicando da ciò che ha scritto, il cinema non lo interessava. Probabilmente neanche l'arte in generale. Anche se amava multo l'ablo Neruda. Considerava i film strumenti di propaganda dell'imperialismo. Nella società che lui voleva, sarei stato disoccupato».

   Il film da alcuni è stato giudicato piuttosto freddo. Immagino che, evitare un forte coinvolgimento con la storia, sia stata una precisa scelta.
«Questo approccio è la conseguenza delle mie ricerche sul Che. Incontrando persone che lo hanno conosciuto molto bene e lo ammiravano ho avvertito che era una persona difficile per tutti. Un medico che lottò al suo fianco, suo intimo amico, mi disse una frase illuminante: "Dovevi amare Che senza aspettarti niente in cambio". Forse perché era argentino. Gli argentini sono noti per il loro atteggiamento di superiorità. E perché era un leader con un forte senso della disciplina. Il risultato era una personalità piuttosto fredda. La sua empatia si rive lava solo quando faceva il medico».

   Lei non tenta di capire che cosa lo spingesse a partecipare ad una rivoluzione dopo l'altra, abbandonando la famiglia, cinque figli...
«Le motivazioni di una persona per me sono meno interessanti delle sue azioni. Sono queste a definire ognuno di noi. Volutamente ho evitato ogni rappresentazione della vita privata. Inoltre tutti quelli che hanno combattuto a Cuba e in Bolivia avevano famiglie, hanno abbandonato le persone che amavano. In questo il Che non era unico».

   I due film sono visivamente molto diversi. Perché?
«Per un tentativo di riprodurre il diverso stato d'animo del Che nei due testi scritti da lui che abbiamo usato come base dei film. Il memoriale sulla vicenda cubana lo scrisse dopo la rivoluzione e rappresenta il punto di vista del vincitore. Ha la prospettiva di chi guarda indietro ad un'impresa della quale conosce l'esito. Così ho voluto un film con colori caldi e schermo panoramico. Come un racconto epico. I diari boliviani hanno un suono molto diverso. Che Guevara li scriveva giorno per giorno. In quelle pagine non sa cosa succederà, quale sarà il suo destino. Qui lo schermo si restringe, i colori sono freddi, il disagio evidente».

   All'ultimo Festival di Cannes Benicio Del Toro ha vinto il premio come miglior interprete maschile...
«Pienamente meritato. Benicio offre un'interpretazione del Che estremamente equilibrata. Non tenta mai di farci amare il personaggio e non c'è un solo momento in cui si avverta il lavoro dell'attore, quasi si trattasse di un documentario».

   Infatti, pur disponendo di un attore carismatico, lei non concede mai gloriosi primi piani.
«Isolare il Che mi sarebbe sembrato tradire la sua idea di base: lavorare in gruppo nella direzione di una società che includesse tutti».

   Secondo lei, perché è diventato un'icona per i giovani, un poster, un volto sulle t-shirt?
«Certamente molto ha giocato la sua bellezza e l'essere morto giovane. Ma, per chi ne sapeva di più, ha contato anche ìl fatto che non abbia mai accettato compromessi. Non tradì mai le proprie promesse e non rinunciò a tornare nella giungla, a combattere. Era un autentico rivoluzionario e spero che chi vedrà il film capisca che non c'è niente di romantico in una vita dura come la sua. Fino in fondo, scelse sempre il percorso più difficile».

   Questo è il più politico dei suoi film. Desiderava esprimere una posizione personale?
«Sembrerà strano ma per me questo non è un film politico, ma un film su un uomo che ha avuto un ruolo determinante nella politica. Non propone nessuna ideologia. Naturalmente a un certo punto ho dovuto fare mio il suo punto di vista perché le sue convinzioni risultassero sincere. Non significa che io creda in tutto ciò in cui lui credeva. Ma quel che credo io è irrilevante».

   Nel panorama politico attuale, in Italia come negli Stati Uniti, ci sarebbe qualche possibilità di successo per il Che?
«No, perché la politica oggi si nutre di compromessi e lui anche oggi non li accetterebbe. Non potrebbe essere un politico. Fidel Castro lo è. La buona notizia è che in momenti di crisi si creano i presupposti per grandi cambiamenti. Ma occorre gente con forte immaginazione. So poco della situazione italiana, ma so che è difficile trovare una persona capace di risolvere problemi che persistono da molti anni. Da noi Obama ci sta provando con tutte le forze e penso che il suo sia íl compito più difficile al mondo. Ma lui lo voleva fermamente e credo che se qualcuno può rimettere in sesto il Paese, questo sia lui. Ha avvertito gli americani che il cambiamento non sarà veloce, occorreranno anni. Spero che la gente capisca e gli conceda tempo».

   
         
       Lietta Tornabuoni - Da Lo Specchio, Settembre 2008

   Per Che, il doppio film (parte prima, parte seconda) sulla vita e la morte di Ernesto Guevara, atteso per settembre, il regista Steven Soderbergh ha fatto qualcosa di molto raro: un rivoluzionario serio, un medico responsabile, un'intelligenza cosmopolita. Bisogna ricordare, per trovare un personaggio analogo, il protagonista Giulio Brogi di San Michele aveva un gallo di Paolo e Vittorio Taviani: il rivoluzionario che dopo aver salvato se stesso durante lunghi anni di carcere, una volta libero capisce che la sua rivoluzione non esiste più, è cambiata, e si uccide affogandosi. Oppure la tragica figura di Mauricio Do Valle, sterminatore di cangaceiros nel Nord Est del Brasile, protagonista di Antonio das mortes del grande Glauber Rocha. Oppure, ancora, gli animosi rivoluzionari dei film italiani degli anni Settanta, liberatori rurali, immagine delle idee confuse d'una speranza dura a morire; o Evaristo Marquez, unico rivoluzionario nero, combattente coraggioso incapace di governare, vittima dell'astuzia di Marlon Brando in Queimada di Gillo Pontecorvo.

   Sono esempi rari. Se il cinema è un'istituzione patriottica, come è capitato e capita negli Stati Uniti, il rivoluzionario è il nemico naturale, portatore di crudeltà inumana e glaciale oppure cialtrone bevitore, fumatore di cigarillos, urlatore di ordini, uccisore, smaneggiatore di ragazze, torturatore, un sadico maleducato. In questa ottica, ogni indiano ribelle, ogni messicano desideroso di indipendenza diventa una carogna. Non s'è mai visto al cinema un rivoluzionario amato come Che Guevara, bello, romantico, coraggioso, divenuto l'immagine esemplare nel mondo del rivoluzionario. Su di lui esistono sinora due film noti, entrambi finanziati con fondi americani: l diari della motocicletta di Walter Salles, cronaca di un viaggio in moto dello studente universitario Guevara, insieme con l'amico scrittore Alberto Granado, attraverso l'America Latina, viaggio di conoscenza e anche di formazione; ed Evita di Alan Parker, musicale, dove il Che è un allegro giovanotto argentino impersonato da Antonio Banderas, mentre Madonna è la miracolosa Eva Perón. Lasciando perdere o quasi la politica, sono film pre-rivoluzionari, sul carattere e il temperamento e l'educazione del rivoluzionario. Diversamente da Che di Soderbergh, opera lunga e complessa che vuol essere nello stesso tempo una biografia esatta e un'analisi psicologica, nell'interpretazione di Benicio Del Toro, molto bravo.

   Un doppio film diverso da tutti. Persino quando a realizzare i film erano registi democratici ansiosi di verità, il cinema americano ha dato i rivoluzionari più insopportabili e archetipici, o più avviliti. Viva Zapata! di Elia Kazan, scritto da John Steinbeck, magnificamente interpretato da Marlon Brando con baffi neri, è imperniato sul tema del potere che corrompe tutti e sulle contraddizioni della rivoluzione sempre tradita dai suoi capi, più che raccontare la vita di Emiliano Zapata che si batté contro il dittatore Porfirio Díaz per i diritti dei contadini, i peones poveri oppressi dai grandi proprietari terrieri. In Old Gringo, tratto da un enfatico romanzo di Carlos Fuentes, diretto da Luis Puenzo, tra gli ultimi film interpretati da Gregory Peck nel personaggio dello scrittore esoterista Ambrose Bierce, insieme con una pugnace zitella americana (lane Fonda) e un generale messicano si stabilisce un improvvido incontro con il capo rivoluzionario Pancho Villa. L'atmosfera sfatta e torbida e violenta stabilita a Cuba dal dittatore Fulgenzio Batista ha la sua influenza pure su Tomas Milian in Havana di Sydney Pollack.

   In casi diversi, il capo rivoluzionario è latino, porta una frusta con la quale si percuote gli immancabili stivali. In film più moderni e aggiornati, può anche essere un giovane malvestito che parla a bassa voce con un sibilo oppure, nell'alterazione più stupida, una bionda tedesca con i tacchi alti. Bisogna dire però che, come nella vita, i rivoluzionari si fanno sempre meno frequenti: vorrà dire che non ce ne sono più o che i loro metodi, la loro apparenza sono mutati. Oggi nessuna piccola borghesia snob di spettatori accetterebbe di avere a che fare con un rivoluzionario senza cachemire, maestro di gestacci e parolacce: per quello ci sono già i politici e i criminali.

   
         
       Valerio Caprara - Da Il Mattino, 23 maggio 2008

   Il «Che» è vivo. E anche i critici che hanno retto la maratona del doppio film di Steven Soderbergh (quattro ore e mezza) grazie al vezzoso cestino offerto nell'intervallo dalla produzione. Un record che conquista un posto d'onore nell'album dei ricordi festivalieri, ma non si specchia, purtroppo, in un omologo evento cinematografico. I punti a favore dell'ambiziosa saga non mancherebbero: Benicio Del Toro, che ne è anche produttore, è veramente impressionante per come s'incarna con accuratezza mimetica nell'ex dottore argentino, ma anche gli attori alle prese con personaggi come Fidel (Demiàn Bichir), Raul (Rodrigo Santoro) o Cienfuegos (Santiago Cabrera) onorano il ruolo senza ricorrere a patetiche pantomime; la scelta di girare entrambe le parti in spagnolo indica la serietà e la devozione con le quali il regista americano s'è dedicato all'impresa; le ambientazioni (Spagna, Portorico e Messico) sono perfettamente ricalcate su quelle originali di Cuba e Bolivia. Manca, però, il guizzo stilistico decisivo, un'idea-faro di messinscena, una specifica suspense che riscatti la prevedibilità di vicende universalmente note ed incessantemente tramandate e indagate; come manca la giustificazione artistica e spettacolare della rinuncia ad affrontare passaggi decisivi e significativi della parabola guevariana (la fondazione dello stato socialista, l'attività da ministro dell'industria, il rapporto con l'Urss di Breznev; per non parlare dei risvolti privati, relegati a scialbi quadretti con Aleida e prole). Una sensazione di spreco, in qualche modo accresciuta dalla diversa qualità dei capitoli: il primo «Che» - cadenzato sulla ricostruzione in bianco e nero e montaggio alternato della storica visita all'Onu nel '64 in qualità di eroe e ambasciatore della Rivoluzione - è di una piattezza disarmante, incapace di rievocare la trionfale avanzata dei barbudos e il crollo della corrotta dittatura del generale Batista al di là di qualche banale scaramuccia e qualche banale squillo agiografico; mentre il secondo - bruscamente trasportato nel vivo della tragica e conclusiva spedizione nella giungla boliviana - diventa un po' meno «orizzontale», scioglie nodi meno risaputi e, illustrando battaglie meno coreografiche, abbozza un identikit più sfumato e mosso del protagonista in cui l'ossessiva missione si è trasformata in stile di vita (e di morte). Non si tratta solo del fatto che al cinema i perdenti sono più interessanti, oltre che più simpatici, dei vincenti, ma anche della poco fruttuosa caccia a una chiave drammaturgica in precedenza del tutto trascurata o dispersa. È nel contempo evidente quanto siano superflue le polemiche inerenti al giudizio politico che si può dare sul regime ancora in sella a Cuba. Se Soderbergh ha tutto il diritto di esserne affascinato, ciò che rende il kolossal un'opera generosa ma inutile è la mancanza di un «contatto» profondo con il carisma del Comandante: quel grumo magmatico e misterioso, fuori della sua portata didascalica e illustrativa, che impasta l'obiettiva purezza degli ideali, l'obiettiva e spesso sanguinaria caducità del disegno guerrigliero e l'obiettiva forza della società «imperialista» che ha risucchiato il mito e ne ha fatto un'icona pubblicitaria.

   
         
       Roberto Silvestri - Da Il Manifesto, 23 maggio 2008

   Il crimine organizzato non è qualcosa di aberrante, è solo «l'esercito ombra», la manovalanza gangsteristica del rapace sistema neoliberista. Ovvero oggi viviamo in un mondo che, azzerato il «libero mercato», reprime sul nascere qualunque lotta dal basso per lo sviluppo umano (tranne, forse, in Cina e in India), mentre enfatizza e osanna la più violenta e totale coercizione dall'alto (in Europa per esempio).

   Abbiamo visto, a Cannes 61, l'apologia di tutto ciò nascosta nel cartoon israeliano, falso e falso pacifista, di Ari Folman Waltz with Bashir (il peggiore film della selezione). Ma abbiamo anche goduto lo svelamento e la critica di tutto ciò. Direttamente, in Gomorra di Matteo Garrone e in Il silenzio di Lorna dei fratelli Dardenne. E, indirettamente, radiografando i movimenti underground della coazione borghese a figliare e accumulare (anche sensi di colpa) in Una donna senza testa di Lucrecia Martel, in Racconto di Natale di Desplechin e in La frontiera dell'alba di Philippe Garrel. Molto più in là è andato The Changeling di Clint Eastwood che, già quasi arringando contro l'esercito appena dispiegato a Napoli dal governo italiano di destra per difendere gli interessi camorristi più malsani, ha indicato esplicitamente nel corrotto autoritarismo dei politici e dei loro bracci armati il pericolo numero uno di ogni democrazia (la polizia di Los Angeles, almeno dal decennio 1919-1928 della «caccia ai rossi», per controllare la situazione non ha mai avuto bisogno di evocar nazisti: era parecchio più a destra).

   Si affianca a questo capolavoro degno di Frank Capra, che è stato il film più moderno in competizione, una vera danza macabra di forme estetiche contundenti, Che l'attesa biografia di un «grande intellettuale, ma non solo: il più completo essere umano della nostra epoca», come scrisse Jean Paul Sartre. Un film «sperimentale» (e adulto: né apologetico, né derisorio né parziale, né opportunista) su Guevara (un eccellente Benicio del Toro) diretto dallo spregiudicato statunitense Steven Soderbergh (in attesa di distribuzione, è un caso?). Sono quattro ore e mezza (ma sembrerà un velocissimo clip) divise in due capitoli: «Guerriglia», puro cinema d'azione e riflessione sulla lotta armata, 1957-1959, contro il tiranno Fulgencio Batista, dalla Sierra Maestra fino alla presa di Santa Cruz, guidata dai «barbudos», dal Movimento 16 luglio di Fidel Castro, il fratello Raul, Cienfuegos e Guevara, con tante dettagliate azioni di guerra e di dibattito etico-politico, montate al viaggio, ricostruito in bianco e nero, in Usa e all'Onu di Guevara nel 1964; e The Argentine, quasi un'orazione funebre bucolica, alla Straub, sull'assassinio del Che dopo il fallito tentativo, ripreso quasi in tempo reale, di aprire nel 1967, clandestinamente, e contro tutti, dal Partito comunista al dittatore Barrientos, un fuoco di guerriglia anche in Bolivia, da affiancare al poderoso processo rivoluzionario «trilateral» che incendiava in quel frangente l'Asia del sud est asiatico, l'Africa delle indipendenze e del progetto irreversibile Nkrumah-Lumumba e l'America Latina di Allende, Camillo Torres, Douglas Bravo, Marighella e la doppia tenaglia Tupamaros in Perù e Uruguay. In questa seconda parte è stupefacente il distacco brechtiano, la curiosità intellettuale e il formalismo (cioè la capacità di essere sempre innovativi, nonostante l'alto quoziente di difficoltà di una quasi continua «caccia all'uomo» tra i boschi) dell'approccio di Soderbergh e del suo sceneggiatore Peter Buchman (che deve aver avuto tra le mani anche un copione sul «Che» di Terence Malick). Certo il gesticolare un po' nevrotico un po' irritante di Demian Bichir che interpreta Castro, per quanto filologicamente matematico, nuoce al clima di questo «romanzo d'avventure» e, siccome Castro, da giovane, fu anche comparsa e generico a Hollywood, questa caricatura sembra stranamente criticare proprio le tecniche di comunicazione della «fabbrica del cinema», che Fidel tanto bene ha saputo perfezionare, intervenendo, come se ne fosse un luminare, su qualunque questione culturale, politica, culinaria e sportiva...

   Il film non è secondo a Indiana Jones per suspense, e, in più, ci offre una rigorosa radiografia degli sforzi fisici e psichici cui questo gruppo di trentenni indomabili si sottopose per inventare, a partire da se stessi, «l'uomo nuovo rivoluzionario», sempre capace di rispondere in modo differente, nella sostanze e nello stile, ai problemi militari, economici, sociali e umani drammaticamente imposti dall'imperialismo. Come il trattamento dei prigionieri e dei rivoluzionari, lasciati in ogni momento liberi di proseguire o meno la lotta; la legittima o meno della pena di morte, non come astrazione, ma come sua fenomenologia concreta; il comportamento dei guerriglieri «nel territorio»... È come se questo film, grande elogio alla rivoluzione cubana (meno alla sua astratta esportabilità), nonostante i suoi enormi errori, scrivesse un altro catechismo, di ispirazione umana non divina, possibile. Ed è come se quel fucile, raccolto accano al cadavere di Guevara, oggi fosse imbracciato non più o non ancora da nuovo un partito rivoluzionario, ma almeno da un cineasta cosciente e onesto. Si è fatta molta sciocca ironia questa mattina sui media sul kit da sopravvivenza consegnato dai distributori ai giornalisti tra un film e l'altro ma il ricordo va più a Selznick e a come lanciò il suo lunghissimo Via col vento, proprio con una mezz'ora biologicamente corretta di intermezzo. Il film interviene troppo distrattamente, è vero, sul dissidio tra Guevara e Castro a proposito del rapporto con l'Unione Sovietica, e fa capire che il Che non condivideva l'obbligo strategico di entrare nell'orbita economica revisionista, con tanto di monocultura obbligata, e di tecniche repressive di controllo biopolitiche. Ma se si fa un film sul grande Guevara, è impossibile non fare un film sul grande Castro. Troppo facile separarne i destini.

   Se c'è un'altra critica, meno sostanziale, da fare al film, riguarda l'asma, la malattia che perseguitò il comandante sulla Sierra Maestra e in Bolivia, quando, per un maledetto errore, dimenticò di portare con sé i medicinali. Ebbene l'apparecchio che Guevara usava era molto simile a quello utilizzato da Dennis Hopper in Blue Velvet. Al museo della rivoluzione dell'Avana è conservato. Guevara non era tecnologicamente arretrato. E, come ci ricorda Michael Moore in Sicko, facendo restare a bocca aperta i suoi connazionali malati, tutte le cure contro l'asma a Cuba, costano ancora un millesimo di quanto costino in Usa. 

   
         
       Davide Turrini - Da Liberazione, 23 maggio 2008

   Dopo anni di privazioni festivaliere è giunto il primo gesto di generosità del prussiano sistema logistico di Cannes. A metà pellicola di Che, per la regia di Steven Soderbergh, è calato, come nelle proiezioni di una volta, l'intervallo con annesso spuntino gratuito. Ovvero un cestino da set, con su scritto Che, composto da sandwich, snack dolce, bottiglia d'acqua e salvietta. Certo, il Che soderberghiano dura quattro ore e mezza. Difficile mantenere alta l'attenzione anche se il tema avvince. Perché Che va visto con calma, per intero, senza perdersi un secondo di proiezione. Altrimenti attendere spiegazioni successive da parte di Soderbergh e compagnia filmante diventa impossibile. Solo tra le pieghe delle inquadrature e delle sequenze del film si sviluppa l'algido e composto ritratto voluto dal regista quarantaseienne di Atlanta.

   A quarantuno anni dall'uccisione del comandante Che Guevara nella scuola boliviana de La Higuera ne abbiamo sentite di tutti i colori: dalle mitizzazioni esagerate alle infime delazioni, dalle solerti agiografie al revisionismo galoppante. E Soderbergh, non ha di certo intenzione di accodarsi a fans o detrattori. Semplicemente osserva l'uomo Ernesto Guevara, ritraendolo negli impacci dell'asma, nell'improvvisa e inaspettata popolarità, e soprattutto nello slancio solidaristico di lotta rivoluzionaria a favore degli oppressi. In origine Che doveva essere soltanto la parabola discendente, la sconfitta di Guevara in terra boliviana tra l'autunno del '66 e quello del '67. Successivamente, Soderbergh e lo sceneggiatore Peter Buchman hanno scritto quella che poi è diventata la prima parte ovvero l'impresa degli 82 esuli cubani guidati da Fidel e Raul Castro che attraverso la rivoluzione armata avrebbero riconquistato Cuba. I due blocchi, di due ore e quindici l'uno, sono complementari proprio per questo: uno senza l'altro significano ben poco. Su questo, a mo' di cappello, va poi inserito l'aspetto schizoide dell'autore Soderbergh che alterna gradevoli divagazioni ipercommerciali per palati di grana grossa e dai planetari guadagni (come la saga di Danny Ocean), a minute perle di cinema curatissimo, alla "europea" e sempre in perdita, come Bubble o L'inglese . Ed il Che , nonostante il budget da kolossal di 40 milioni di dollari, fa parte formalmente ed ideologicamente della seconda categoria professionale soderberghiana. Quella più sperimentale, quella che attraverso lo stile e la messa in scena svela il carattere politico del proprio lavoro.

   Per comprendere il Che, per tramandarne la conoscenza alle giovani e meno giovani generazioni ignoranti sul tema, Soderbergh allestisce uno sfondo ambientale ricorrente dal quale non si separerà per tutto il film: le fitte frasche della Sierra Maestra del primo conflitto in terra cubana, lo sfondo urbano della città di Santa Clara, gli impervi altipiani boliviani dell'ultima missione rivoluzionaria. Come il titolo provvisorio "Guerriglia voleva", Che è un'immersione senza soluzione di continuità nell'atto pratico rivoluzionario. Strategia, logistica, tecnica di battaglia con in aggiunta brevissimi inserti legati all'intervento di Guevara all'assemblea delle Nazioni Unite nel dicembre del '64. Non c'è interazione classica tra protagonista e comprimari (un Fidel Castro con postura più mussoliniana che mai; Camilo Cienfuegos folle a dovere quanto tradizione tramanda; Tania e Aleida silenziose comparse), ma semplice apparizione di questi, in funzione di affiancamento del Che, interpretato con vigore e misura da Benicio Del Toro.

   Soderbergh sminuzza i dettagli del viso, del corpo e dell'abbigliamento di Guevara come ci avevano tramandato foto e filmati storici e li ricompone in modo antispettacolare, escludendo i primi piani più convenzionali e includendo improvvisi lampi di genio come la chiusura in soggettiva, dove lo spettatore diventa il Che che guarda gli occhi vuoti e le mani tremanti del suo assassino. Noi cadiamo per terra assieme a Ernesto Guevara, sentendo insieme a lui un fischio fastidiosissimo che ci porta alla morte su schermo bianco. «Non avevo intenzione di idolatrare l'icona da t-shirt - afferma senza enfasi Soderbergh - ma volevo illustrare nel dettaglio lo sforzo psichico e fisico che necessitavano le due campagne di guerriglia dirette da Che Guevara e di mostrare il processo con il quale un uomo dotato di una volontà indomabile scopre la capacità d'ispirare e spronare altri uomini alla rivoluzione. Il Che non l'avrebbe mai ammesso, ma lo stile conta. Conta sicuramente in questo film ed è un elemento cruciale per la comprensione dell'opera nel suo insieme».

   
         
       Emanuela Mantini - da Da Il Sole 24 Ore, 23 maggio 2008

   Sette anni di ricerche, tra Cuba, la Bolivia, Parigi, Miami, per ricostruire la storia di Ernesto Che Guevara e intervistare quelli che lo hanno conosciuto e che hanno combattuto con lui. Alla fine, il regista Steven Soderbergh e i produttori Laura Bickford e Benicio Del Toro (anche protagonista) si sono ritrovati con un materiale sterminato, difficilissimo da strutturare, e hanno deciso di condensare i due "episodi" della rivoluzione cubana e dell'intervento del Che alle Nazioni Unite, a New York nel 1964, nel primo film, The Argentine, e di concentrarsi nel secondo, Guerrilla, sull'ultima parte della sua vita quando, per organizzare una guerriglia che conducesse alla rivoluzione dell'America Latina, andò in Bolivia, dove venne ucciso nel 1967. Realizzati con la nuova, agilissima camera digitale Red, quasi sempre in ambienti e con luci naturali, i film sul Che di Soderbergh sono stati una sfida piuttosto ardua per i cineasti, e tali rimangono per gli spettatori: né manifesto ideologico né biografia,sono lontani dall'epica come dalla rarefazione storica. L'intenzione dell'autore è chiara, soprattutto nel secondo film "boliviano": fare la cronaca, quotidiana e antieroica, della guerriglia, come procurarsi il cibo, sopravvivere alle intemperie e alle imboscate, resistere alla tentazione di tornare a casa. Ma a Soderbergh manca un apparato stilistico sufficiente a reggere l'impresa, che finisce per apparire sì antiretorica e cronachistica, ma anche molto piatta e per nulla emozionante.

   
         
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